Strano personaggio Lana Del Rey, alter ego tanto decadente quanto hipster della cantautrice Elizabeth Woolridge Grant. Il primo album, Born To Die, riusciva a essere, allo stesso tempo, sia fuori da qualsiasi schema sia un perfetto prodotto glamour e le attirava un improvviso enorme successo commerciale, accompagnato però dalla crocifissione in sala mensa per mano della critica musicale. Questa seconda parte, la Del Rey non l’ha presa bene.
Per non parlare poi della telenovela da rotocalco che si scatenò intorno alla sua figura: Lana Del Rey non è una sfortunata figlia di Brooklyn ma una figlia di papà, Lana Del Rey non soffre per davvero, Lana Del Rey ha il naso e le labbra rifatte, Lana Del Rey non sa cantare, non sa ballare, non sa scrivere, le canzoni gliele ha prodotte il babbo – anzi no, il fidanzato, scusate, il nonno –, Lana Del Rey non è nemmeno il suo vero nome, per la miseria! In tutto ciò, la Del Rey l’ha presa sempre peggio, tanto da dichiarare al Guardian: “Vorrei già essere morta”. Sempre sulle pagine del Guardian, nega il negabile: il babbo ricco ce l’ho, ma non lo vedo da anni; mi sono sempre scritta le canzoni da sola; i ragazzi di cui canto li ho incontrati per davvero; le labbra nuove me le ha regalate Gesù; per piacere, l’unica cosa che chiedo è di cantare in pace!
Non che “Born To Die”, musicalmente parlando, fosse così male; qualcosa di buono, qui e là, si trovava. E il qui presente Ultraviolence è un notevole passo avanti. Via le tamarrate, via certa inutile grandeur sintetica, via pathos da discount: “Ultraviolence” punta dritto ai nervi scoperti con perizia da chirurgo. Il punto, come ammette limpido e cristallino Mark Richarson di Pitchfork, è il peso che attribuite all’autenticità. Di intenti, di sentimenti, di vicende, quello che volete. Ora, potremmo compilare pagine e pagine sui concetti di persona, maschera, personaggio e autenticità in ambito artistico. Non tutti i cantanti afferrano il microfono per cambiare il mondo e la storia della musica è piena di artisti che si sono nascosti dietro un personaggio fittizio più o meno conclamato. Nessuno si azzardò mai e mai si azzarderà a criticare l’autenticità del David Bowie imburrato da capo a piedi nel pesante make-up dell’alieno Ziggy Stardust. Così come nessuno interrogò Johnny Cash se davvero avesse ucciso un uomo a Reno solo per vederlo morire. Se volete ascoltare qualcosa di autentico, optate per “Benji” dei Sun Kil Moon. Lana Del Rey cerca solo di fare spettacolo. Forse, il peccato originale mai dichiarato impresso sull’anima di Lizzy Grant è voler piacere all’intellighenzia – sempre che questo termine abbia ancora un senso – senza però avere il talento per riuscirci.
Sotto questa luce si chiarisce meglio la scelta di Dan Auerbach dei Black Keys come produttore. In lui ha trovato l’anima gemella. L’opera di scrematura sonora di Auerbach ha dato vita allo scenario perfetto per la cantante: il “narco swing” del disco è il diorama perfetto dove le fantasie Fifties della Del Rey possono sopravvivere. Il passo generale è lento, in accordo col sentimento dominante che pervade l’opera: una malinconia estrema e totale, espressa sulle note di un’orchestra jazz. Probabilmente, quando la Grant si addormenta, sogna di duettare con Etta James, Diana Ross, Billie Holiday o Nina Simone, nello scantinato fumoso di qualche localaccio newyorkese, aprendo agli astanti il proprio cuore, colmo di maschi belli irraggiungibili e disinteressati, proprio come facevano loro (“He hit me and it felt like a kiss”, canta nella title track – brivido). La realtà non è all’altezza del sogno; tuttavia, “Ultraviolence” porta con sé un notevole, innegabile, fascino.
Cercate però di non prestare attenzione ai testi. Chevy Malibu, Woodstock, sigarette Parliament, ragazzi che si muovono in “shades of cool” (mi rifiuto di tradurlo, in italiano suona ancora più scemo), poesia Beat citata a sproposito e compagnia bella a parte, è il senso generale che sfugge. Quando in “Brooklyn Baby” la Del Rey canta: “Well, my boyfriend’s in a band/He plays guitar while I sing Lou Reed/I’ve got feathers in my hair/I get down to Beat poetry/And my jazz collection’s rare/I can play most anything/I’m a Brooklyn baby”, cosa significa? Rimango interdetto. Le sue dive di riferimento non canterebbero mai minchiate del genere. O forse sta prendendo per il culo l’hipsterismo dominante, sta mettendo di fronte tutte le anime belle di Williamsburg al nulla che si cela sotto l’esile patina della loro baffuta e vintage superficie? Non è chiaro; il contesto è troppo dannatamente serio per essere ironico. E l’album è pieno di riferimenti di questo tipo.
Ad ogni modo, datele una chance. Potreste ritrovarvi innamorati delle morbide sinuosità di “West Coast” e “Sad Girl”. Evitate come la peste l’edizione Deluxe: 70 minuti di questa pastosa malinconia sono troppi, anche per i più coraggiosi.
(Francesco Morstabilini)