Al concerto dei Nine Inch Nails ho imparato una cosa fondamentale: andare su YouTube per farsi un’ idea di come sarà il concerto non è affatto una buona idea, soprattutto se trovi un video come questo dove Trent deve promuovere il disco del ritorno, Hesitation Marks, e pur di fare la sua porca figura (forse) ci mette dei soldi di tasca sua chiamando a raccolta una formazione allargata comprendente Pino Palladino, Josh Eustis, le due coriste Lisa Fischer e Sharlotte Gibson (un po’ fuori luogo se si pensa ai trascorsi del gruppo americano) ed un impianto visual curato da Rob Sheridan pari, se non addirittura superiore, a quello degli ultimi Radiohead dal vivo. Normale poi che le aspettative diventano altissime a causa di quel dannatissimo video e quando ti ritrovi a fine concerto senza aver provato lo stesso stupore provato davanti al monitor del tuo computer una o due domande ti nascono spontanee. Ma facciamo un passo indietro (come dice il buon vecchio Pif).
L’orario sul biglietto segnala l’apertura dei cancelli alle 20 ed è legittimo pensare che la band non suonerà prima delle 22 anche perché ad aprire l’unico concerto pre-estivo italiano della band di Reznor ci sono i Cold Cave di Wesley Eisold. Ti rassicuri mentalmente che i concerti in Italia non iniziano mai prima delle 22; arrivi all’Unipol Arena alle 21 trovando parcheggio nelle vicinanze, man mano che il grosso edificio scuro si fa sempre più imponente ti sembra di sentire la voce dell’ex Mr. Self Destruct e continui a raccontartela “vabhè starà duettando con i Cold Cave”. L’infausto presentimento diventa solida conferma davanti all’ingresso mentre l’addetto al controllo dei biglietti fatica a staccare il tagliando (amico, una cosa sola devi fare!) e scorgi perfettamente musica e testi di “Copy Of A”, una volta tornato a casa scoprirai di aver perso soltanto un altro pezzo (“Me I’m Not”). Persa l’esibizione di Eisold e l’inizio dei NIN l’unica cosa che resta da fare è stare calmi, avvicinarsi quanto più possibile al palco e godersi lo spettacolo che sai per certo sarà all’altezza di quel video (sempre quello) ma noti subito che sul palco con il leader dei NIN ci sono soltanto Robin Finck, l’hometown boy Alessandro Cortini e Ilan “telespalla Bob” Rubin. In realtà il concerto non risente dell’assenza degli elementi presenti durante il “Tension Tour” del 2013 e, come in quella occasione, il set viene diviso musicalmente e scenograficamente in tre parti: la prima in cui i musicisti buttano il sudore e le chitarre il sangue, l’aggressività sale di brano in brano fino ad arrivare alla molotov incendiaria (“Gave Up”) che scatena il pogo tra il pubblico e il delirio sul palco con un Rubin che pesta come un ossesso sulle pelli, manco avesse su rullante e tom le foto di un agente della riscossione tasse che sventola le chiavi della sua auto appena pignorata. La seconda parte del live set è essenzialmente più elettronica: via la batteria, dietro la band cala un grosso pannello di led da cui partiranno delle animazioni, che purtroppo non avranno nulla a che vedere con quelle viste in quel ormai tristemente famoso video; il percorso musicale porterà il combo statunitense a diventare protagonista di una fattispecie di rave party che culminerà con un acidissima versione di “The Great Destroyer” con Reznor dietro i synth a spingere tasti e pulsanti (a volte un po’ a caso). La terza e ultima parte spinge di nuovo sull’acceleratore con brani della decade ’90 (“Eraser”,“Wish”, “Head Like A Hole”) ad eccezione di “The Hands That Feed” che per quanto coinvolgente non regge il peso delle altre tre memorabili canzoni. Saluti di rito, presentazione della band e dopo qualche minuto di applausi e ovazioni i quattro musicisti tornano sul palco per un striminzitissimo encore dentro cui trovano posto soltanto “The Day The World Went Away” ed il capolavoro “Hurt”.
A luci accese e mente lucida sai che i Nine Inch Nails avranno sempre un posto d’onore tra le grandi rock band internazionali, la forza prorompente e la sfacciataggine sprigionata sul palco non saranno le stesse di Woodstock 94, ma i picchi di intensità sonoro/emotivi sono sempre molto alti. Personalmente il set è stato troppo corto e molte sono le canzoni rimaste fuori dall’ultimo album, tre su una setlist totale di venti pezzi sono veramente poche, e in generale troppe quelle escluse dai precedenti album (“Something I Can Never Have”, “Starfuckers”, “Mr. Self Destruct”, “Dead Souls”, “Perfect Drugs”, “The Great Below”, “My Violent Heart”, “In This Twilight”, giusto per citarne alcune), mentre sono state completamente snobbati gli album meno riusciti (The Slip, e la saga dei “Fantasmi”).
Il confronto alla fine ha il sapore agrodolce della nostalgia in quanto più che rapportare questo concerto a quelli del tour del 2013 mi sono ritrovato a sovrapporlo con l’esibizione del 2007 dove suonarono a Bologna in uno straordinario Indipendent Day in cui prima di Reznor e soci suonarono degli stratosferici Tool, dove tra l’altro tutte e due le band sono rimaste ferme fino allo scorso anno. Altri tempi, line up diversa ma scaletta e scenografie potrebbero quasi combaciare come a dire che il meglio è stato già dato. L’altra bizzarra anomalia di questo concerto bolognese stava nel divieto di utilizzare macchine fotografiche più o meno professionali da parte del pubblico, non c’era nessun cartello ad avvisare i malcapitati ma un simpatico giovanotto armato di torcia da 220 watt sparata addosso al povero fotografo di turno che osava tirare sù la sua macchina con il solo scopo di portarsi a casa un pezzo di concerto; il permesso è stato concesso invece ai soli smartphone e su questo i NIN si rivelano al passo coi tempi (di Instagram e Youtube).
postilla personale: ricordarsi di arrivare puntuali ai concerti come specificato dall’orario sul biglietto.
(Antonio Capone)
Foto: AnnaB.