L’attesa del piacere non è altro che il piacere stesso, si dice. In effetti, l’attesa di un disco come questo terzo lavoro dei Real Estate è stato tutto un pregustare suoni, versi, luci e ambientazioni e fantasticare basandoci sul precedente gioiello che è stato Days. Quando ci si pone con argomentazioni come quelle del 2011, si sa, le aspettative dopo sono alte. Purtroppo questo Atlas ci fa tornare con i piedi per terra, ma con un atterraggio assolutamente delicato e senza traumi, riportandoci a un sound un po’ vintage in equilibrio tra chitarre jingle-jangle e dream pop, meno aulico e se vogliamo meno coraggioso dei lavori precedenti ma senz’altro intelligente, onesto e magistralmente confezionato in un’atmosfera timidamente da bella stagione appena sbocciata e ancora offuscata prima dell’esplosione del caldo che fa pendant con il momento dell’uscita nei negozi.
Le considerazioni da fare sono diverse, se vogliamo uscire dal confronto con gli album precedenti, perché diciamocelo, se ci fermassimo a questo punto, “Atlas” ne uscirebbe con onore sconfitto. Invece il disco merita l’attenzione e ha diversi punti a suo favore. Per prima cosa l’esperienza senza saccenza: per tutto il disco, la sensazione è che i ragazzi abbiano davvero imparato a fare quello che vogliono fare nel mondo, ed è lecito che per una band arrivi l’età della maturità. La cosa più apprezzabile però è che ci arrivi senza snaturare le proprie basi, le ispirazioni di sempre, e le proprie inclinazioni naturali. Seppure il lavoro non sia ambizioso come gli esordi, bisogna riconoscere che l’entusiasmo è ancora quello di una classe di ragazzini, e si sente sin dall’apertura affidata a “Had to hear”, nella freschezza e la spontaneità di “Talking backwards”, pezzo che appare subito essere il naturale candidato senza rivali alla carica di primo singolo, e dopo di lei “April’s song”. E se per qualcuno questo disco potrà sembrare un po’ stagnante e senza evoluzione, in realtà l’impressione è che ci sia ancora un ardore giovanile nel proporre del semplice pop senza pretese, a tratti sognante (vedi “Past lives”), a tratti più folk e serioso (“How might I Iive”), a tratti scanzonato e cantabile (“Crime” e “Primitive”), che riprende alcuni passaggi di una certa scuola di cantautorato americano ma che alla fine suona come Real Estate e non come brutta copia sbiadita e fintamente attualizzata di qualche classico del passato.
Insomma, “Atlas” è un disco da avere, se non per la carica innovativa, per la genuinità di una band che sembra aver trovato il suo sound autentico, ancora in grado di regalarci un rifugio incontaminato dallo stress e dalle incombenze del mondo che ci circonda, con la naturalità e la facilità d’ascolto del pop senza spocchia e senza scadere mai nel banale. Un disco che si farà ricordare negli annali del 2014 come la conferma di una formazione che ha capito quale strada percorrere e la attraversa con consapevole onestà e matura leggerezza.
(Carla Di Lallo)