Miglior disco della musica indipendente italiana degli ultimi venti anni. Wow. Cos’altro rimane da dire su un album che si fregia di cotanta onorificenza? Hai Paura Del Buio? compie 17 anni ma non è mai invecchiato di un giorno. Stessa cosa vale per gli Afterhours, coerenti oggi come ieri al loro rock poetico e alla missione di creare una comunità, una rete che unisca musicisti e band italiane. Ci provarono col festival Tora! Tora!; condivisero coi compagni di viaggio la visibilità sanremese con il progetto Il Paese è Reale; ora, invitano quegli stessi compagni alla festa di compleanno del loro album più importante, chiedendo a ciascuno di rifarne un brano. Gli Afterhours si confermano ancora una volta dei musicisti contabili con un cuore. Perché celebrarsi da soli quando l’avventura, fino ad ora, è stata bella anche e soprattutto grazie ai tanti amici? La versione Reloaded di HPDB esce accompagnata da un disco “gemello” dove i padri affidano a tanti padrini la cura della scaletta originale. Dagli Afterhours non potevamo certo aspettarci un disco bonus compilato con b side e alternative takes.
Per un disco speciale, ci vuole un articolo speciale. Per molti di noi HPDB è stata la colonna sonora della giovinezza, il sentiero dei nidi di ragno che ci ha accompagnato nell’età matura. Canzone per canzone, lasceremo parlare più la pancia che la testa; a coloro i quali non saranno d’accordo con le nostre parole, vorrei ricordare che HPDB appartiene alle emozioni, prima che ai critici. (Francesco Morstabilini)
Hai paura del buio?: Il pezzo originale dura 35 secondi, quello contenuto in questo “Hai Paura del Buio? Reloaded” supera i 3 minuti. Poi si legge che il rifacimento di questo brano è ad opera di Damo Suzuki, gloria dei gloriosi Can, e tutto è più chiaro. Il musicista giapponese rivisita lo strumentale del disco del 1997 donando a quell’informe sequenza di ronzii e frequenze una struttura (quasi) compiuta, raccogliendo più che la musica in sé il significato di quei rumori che facevano da apripista a “1.9.9.6.”, creando una sghemba ballata che incrocia jazz, influenze Waitsiane e sax che ricrea le antiche frequenze. (Matteo Moca)
1.9.9.6.: Hanno tolto la bestemmia! Male, non c’è! In mancanza di ciò, la bella armonica di Edoardo Bennato allieta. È il secondo ospite di questa riedizione dell’album, che reinterpreta ottimamente, ma senza snaturare, uno dei pezzi più significativi della band. La spensieratezza di Bennato, velatamente contrasta col testo di “1.9.9.6.”, specchio della Milano imprenditoriale fatta di architetture mentali e di imperfezioni alla moda; diventa leggero e sbarazzino, pur adorando il tono fastidioso nel cantato di Manuel nell’originale. Cambio rotta, cambio stile, scopro uno splendido Bennato. (Tiziana Salomoni)
Male di miele: Due verità assolute ed incontrovertibili possono raccontare questa versione di Male di miele: Primo, questa canzone sarebbe un pugno allo stomaco anche se la recitasse Gabriel Garko; Secondo, il nepotismo è una piaga che, soprattutto in Italia non pare voler essere debellata. Il risultato è troppo facilone, simile a quella canzone di Celentano che viene ciclicamente riproposta ai matrimoni, e che rimane bella nonostante il tempo e le cattiverie che subisce. (Mario Mucedola)
Rapace: Questo, a mio parere, è uno dei ritornelli più belli dell’album e sentirlo cantato da Sangiorgi dei Negramaro è atomico! La mia pelle vibra nel sentire la sua interpretazione, non poteva essere scelta voce migliore per l’intensità di questo brano dove viene accentuato e ricostruito ancor più intensamente nell’arrangiamento; il tutto diventa più luminoso, pur mantenendo la sua anima triste e tormentata. Anche la voce di Agnelli la trovo molto più piena e ferma, creando uno ottimo connubio tra le due, regalandoci un finale che mette un ottimo punto al tutto. (Tiziana Salomoni)
Elymania: La giovane band romana destruttura completamente il brano, tirando fuori un’interpretazione acida quanto minimal, che rispecchia piuttosto coerentemente il nuovo corso inaugurato con l’album Amatoriale Italia dello scorso anno. Basso e batteria: tanto basta per riscrivere in chiave del tutto personale il pezzo. La voce ammiccante e decadente di Alessandra Perna fa tutto il resto. (Salvatore Piccione)
Pelle: Due precursori nei loro rispettivi tempi, generi musicali e nazioni uniti in una collaborazione d’alto livello, per celebrare un album pilastro del rock alternativo italiano. Questo è ciò che Mark Lanegan e gli Afterhours hanno cercato di fare con “Pelle”, simbiosi tra musica e testo in cui percepiamo rabbia, amore, delusioni e rimpianti per qualcosa di stupendo ma svanito.Violini e chitarre rendono il tutto crepuscolare lasciando il segno sulla pelle. (Benedetto Recupero)
Dea: Capovilla e soci dimostrano di essere perfettamente a proprio agio nella loro visione di “Dea”. Si tratta di una delle interpretazioni che meno si discosta dalla versione originale. In questo caso non ci si poteva aspettare altro: due minuti di puro rock ad alta tensione. (Salvatore Piccione)
Senza finestra: I confronti dovrebbero essere dichiarati illegali. Eppure non c’è modo di ascoltare HPDB Reloaded senza paragonarlo al suo predecessore del 1997. Quindi affiliamo la penna e parliamo della traccia numero 8, Senza Finestra: tanto ossessiva e disturbata nell’originale quanto dolce e serafica nella riedizione del 2014. Due versioni che condividono molto poco se non il testo. Manuel Agnelli si affida ad un tono impersonale e ad una elettricità distorta per rendere le frasi taglienti e crudeli, per trasmettere un senso di incomunicabilità tra i soggetti. Il giro di chitarra insistente, la ripetitività e il guizzo finale del violino a dare un volto più umano. Sentire le parole agri di Agnelli cantate dalla voce di una donna spiazza. L’animo e la mano di Joan As Policewoman scuotono nel profondo la canzone. Il suo timbro delicato e il ritmo rallentato, affidato al pianoforte, scaldano una canzone concepita come fredda e distante. Il violino invece di essere un elemento incongruo giustapposto sul finale, viene inserito nel tessuto sonoro fino a far brillare la malinconia. Il minutaggio si allunga, la ripetizione della strofa invece di acuire l’ossessività la frantuma in una tenera cantilena. Una rilettura personale e intimistica che rende la versione di Ms. Wasser fruibile anche in solitaria. (Amanda Sirtori)
Simbiosi: Piomba subito su di noi la solennità delle ottime musiche del polistrumentista Der Maurer/Enrico Gabrielli, che ha riarrangiato magicamente “Simbiosi”, piano e fiato imprimono l’inconfondibile voce di Vasco Brondi. Manuel sembra se ne voglia stare in disparte, ad osservare l’ottimo lavoro fatto dagli artisti in questione. Particolar nota, le famose voci esistenzialiste di sottofondo sono maschili, a differenza dell’originale, segno che i tempi potrebbero essere cambiati. Un insolito risultato, una simbiosi, per l’appunto, riuscita perfettamente. (Tiziana Salomoni)
Voglio una pelle splendida: Una delle più belle canzoni del disco, ballata lieve ed eterea disturbata da improvvise incursioni rumorose, segnata da un testo altrettanto significativo (“Vieni a salvarmi/Salvami”). Il rifacimento è ad opera di Samuele Romano (Subsonica) che rinvigorisce la batteria, aggiunge suoni elettronici e stempera i feedback dell’originale. Per uno dei pezzi più belli del disco si poteva, forse, osare di più, anche se la performance del torinese è comunque all’altezza delle altre contenute nel disco, abile nel ritagliarsi il brano sul proprio stile. (Matteo Moca)
Lasciami leccare l’adrenalina: è la dodicesima traccia di HPDB?. Nella versione originale, in poco più di un minuto, descrive un rabbioso quadro vittima-carnefice di indubbia potenza. Ricantata da Eugenio Finardi, raddoppia la durata e diventa, dominata da un bellissimo piano e con un cambio di alcune parole-chiave, un’altra canzone: da inno sadomaso a canto di orgoglio di una persona che ha nell’anima quei lividi di cui parla il pezzo, segni distintivi delle battaglie della vita, un po’ come le rughe di cui parlava Anna Magnani, quando chiedeva ai truccatori di non coprirgliele. (Marinella Mangione)
Punto G: Magistrale la rivisitazione dei Bachi da Pietra di uno dei brani più belli e caratteristici dell’album. Il coro spettrale che recita «Sei fratello nel controllo» e l’interpretazione vocale di Giovanni Succi creano un’atmosfera catatonica, mentre la parte strumentale si muove tra sonorità doom/stoner. Nel crescendo finale si aggiunge il controcanto di Manuel Agnelli a suggellare una delle idee più riuscite del progetto. (Salvatore Piccione)
Veleno: Per chi ha amato e ama tutt’oggi la versione originale del pezzo, sarà difficile apprezzare il risultato ottenuto con Nic Cester (Jet) alla voce nella riproposizione reloaded. Si potrebbe quasi parlare di una vocalità biascicata che non fa emergere la sensualità nera e la violenza che il giovane Manuel nel 1996 donava al brano posizionandosi al timone degli umori vocali. Per quel che concerne la parte strumentale invece, oggi come allora il pezzo è tremendamente disarmante. (Marco Iannella)
Come vorrei: Cut-up lo chiamano, ma il non-sense apparente di “Come Vorrei” cova in realtà immagini e suggestioni insidiose di per sé, capaci di attecchire anche in mancanza di nessi logici. La musica poi contribuisce con una ulteriore dose di surrealismo: la micro-sinfonia da cameretta diffonde serenità mentre Agnelli con buone probabilità canta di gravità ed estinzioni anticipate. Si direbbe c’entri poco o nulla col resto dell’album ma d’altronde “HPDB?” è fatto così, ha un’anima anarchica difficile da incastrare. Nel gioco compiaciuto dell’autocelebrazione la cover spetta a Piers Faccini e si fa notare per essere una delle pochissime che possa competere con l’originale, grazie allo scarno arrangiamento rivisto in versione folk – più Damien Rice e meno carillon – e la voce intensa che sussurra in un dignitoso accento italiano parole dal significato indecifrabile. (Alberto Mazzanti)
Questo pazzo pazzo mondo di tasse: La prima volta che ascoltai HPDB, nel 1997, ero un picio di 14 anni dai gusti musicali assoluti, preda della teenage angst e italofobico. Fu amore. Ma mai avrei pensato che il Dittico del Fisco Artistico, di cui fa parte “Questo Pazzo Pazzo Mondo di Tasse”, sarebbe rimasto il mio preferito. La versione di Fuzz Orchestra e Vicenzo Vasi non tradisce per nulla la poetica originaria. Canta, oggi come allora, l’eterno conflitto arte/moneta con somma precisione, ironica disillusione e placida rabbia.(Francesco Morstabilini)
Musicista contabile: riflette appieno il cruccio di molti teenager dei tardi ’90: quando un artista è “commerciale”? Quando la musica è Arte o Soldo? Crescendo, il dilemma si fa più sfumato, nebuloso, in sintonia con gli arrangiamenti del brano degli Afterhours, rilassati eppure così gravidi di tensione sotterranea. La cover proposta dai Marta Sui Tubi non sarebbe brutta, se non fosse quella Musicista Contabile. È vuota. Sterile. Rabbiosa senza causa. Come se ci si fosse rassegnati ai musicisti contabili. (Francesco Morstabilini)
Sui giovani d’oggi ci scatarro su: Un manifesto generazionale, un inno, un vero e proprio pezzo storico. Sono sfacciatamente di parte se si parla dei Ministri e fingerò di non accorgermi che in realtà questo pezzo lo stanno suonando i Millencolin ma in questo mucchio di canzoni mi sembra quella più autentica, quella che più ricrea l’intenzione originale, quella che – per intenderci – è più simile ad una canzone degli Afterhours se gli Afterhours fossero un gruppo di sbarbi odierni. (Mario Mucedola)
Mi trovo nuovo: Pianoforte in controtempo sovrapposto delay di chitarre e voci che si alternano su differenti toni e la voce di Rachele Bastreghi (Baustelle) che si amalgama in maniera sublime all’andamento del suono e soprattutto al testo di questo racconto scanzonato che sa di sudore, eccitazione, paura e trasporto dell’inesplorato in un inaspettato ménage à trois che si conclude con un tocco di vanità insita nell’umano. La scelta della voce di Rachele inoltre, dona alla traccia un aspetto dolce e malinconico. Pezzo avvolgente anche se non lo si può trovare nuovo. (Benedetto Recupero)
Televisione: “Televisione” era la b side di “Male di Miele” e forse lì doveva rimanere: la scaletta di HPDB è nata perfetta e non aveva bisogno di figli ritrovati. Sembra una sigaretta in bocca a chi credevi non fumasse. Non che sia una brutta canzone. Solo che non è all’altezza del resto dell’album. Si riscatta nel suo fato: muore grunge davanti al duo Donà-Wyatt e rinasce ballata bucolica di idilliaca leggerezza, pervasa dal respiro folk del maestro di Canterbury, tra marimba, archi carezzevoli e suoni onirici. (Francesco Morstabilini)