Lo sappiamo, l’Islanda è un’officina di talenti che ultimamente ne sforna uno dopo l’altro. Sarà il freddo che mantiene svegli, oppure, come racconta Ásgeir in un’intervista, la noia dei posti sperduti in cui non c’è nient’altro da fare che suonare. In bilico tra il nulla sconfinato e grigio delle campagne islandesi e il calore di una famiglia di musicisti, è cresciuto Ásgeir Trausti Einarsson, un ragazzo dalle mille risorse, che con un disco è diventato the next big thing in Islanda, con ben quattro nominations agli Icelandic Music Awards e che in pratica è stato comprato da un islandese su dieci.
Niente male per un ventenne, soprattutto se si considera che fino a quattro anni fa pensasse più alla carriera sportiva che alla musica. Figlio d’arte (padre cantante e poeta, che ha scritto anche parte dei testi dell’album, madre organista) ma che a quanto pare non ama le scelte scontate, per cui la musica ha sempre fatto parte della sua vita, anche se in realtà lui era partito come un promettente giavellottista. Poi qualcosa va storto, è costretto a fermarsi e allora nei lunghi mesi di convalescenza riprende in braccio la chitarra e comincia a dedicarsi alla musica a tempo pieno. E in questa atmosfera bucolica in mezzo alla natura di immobilità forzata che nasce questo disco, “Dýrð í dauðaþögn” in islandese, con canzoni scritte un po’ col padre, come dicevamo, e un po’ con qualche amico. Lui stesso lo definirà “un disco collettivo” che attirerà persino l’attenzione di John Grant che accetterà di tradurre i testi in inglese per l’uscita recente della versione internazionale di quest’album, che prenderà il nome di In The Silence. Un disco che sembra esattamente venire dal silenzio, dalle influenze folk-pop ma dai toni minimal, fatto per immergersi in un mondo fresco, sbarazzino, un rifugio fantasioso dove fuggire dal grigiore spento della campagna, ma delicato, senza sconvolgere troppo chi è abituato alla leggerezza dei suoni della natura. Sin dall’inizio si percepisce questo sentimento spirituale, questa voglia di riconciliarsi con i suoni e i ritmi naturali, con i silenzi. Come se solo in pace col silenzio si possa poi apprezzare la musica. E quindi con “Higher” si entra in punta di piedi nell’album, si becca delicati come i passeri sulla neve con “Head in the snow”, si ascolta ad occhi chiusi il ronzio dell’estate di “Summer Guest”, in cui la chitarra sembra riprendere il misticismo di “That’s the way” dei Led Zeppelin, finché non esplode la primavera con l’orchestra e i fiati di “In harmony”. Poi si vola alti trasportati dalla chitarra acustica e dalla marcetta fiera della batteria di “In the silence” e dagli acuti posati dei ritornelli, e arriva anche il beat urban di “King and Cross”, per chi esce da casa con le cuffie nelle orecchie, ma per un po’ di verde può sperare solo nel parchetto del quartiere. Un disco dai testi ispirati alla natura alle persone che si vogliono avere vicine, in cui la traduzione, a detta dell’autore, resta fedele al significato delle liriche originali, cantate con abilità e senza risultare stucchevoli, grazie all’atmosfera un po’ congelata che pervade tutto il lavoro e grazie alle doppie piste che rendono il tutto spalmato sul tappeto strumentale e poco spocchioso. Se ha fatto così immediatamente breccia nel cuore dei suoi compatrioti, il giovane Ásgeir, abituati a un avvicendarsi in casa di nuovi artisti sempre veloce e ricco, un motivo ci sarà. Forse perché per la giovane età, l’ingenuità della composizione s’incontra con una modestia che in qualche modo sorprende.
Sarà questo approccio da bravo ragazzo che ha conquistato l’attenzione dei media internazionali che non aspettavano altro che l’uscita in inglese di questo disco genuino, onesto, fresco ma con i piedi saldamente incollati per terra. E saranno forse proprio i suoi piedi per terra che ci faranno parlare di lui ancora per un bel pezzo.
(Carla Di Lallo)