St. Vincent, all’anagrafe Annie Clark, è la più grande interprete della musica pop contemporanea e l’omonimo “St. Vincent”, il suo nuovo album, è l’emblema di questa grandezza; il suo capolavoro. Lo so, questi sono giudizi da conclusione della recensione, ma almeno, chi si dovesse stancare di leggere prima della fine, avrà l’input ad ascoltare questo disco e sarà incuriosito dalla sua bellezza.
Dopo le grandi prove di “Marry Me” del 2007, “Actor” del 2009 e Strange Mercy del 2011 (per non parlare dello straordinario Love This Giant in collaborazione con sua maestà David Byrne), Annie Clark si ripresenta, con una nuova etichetta, all’ennesima prova solista e con il quarto disco in sette anni. Gli album precedenti sono tutti album molto belli, “Actor” in particolare (sia per l’importanza che riveste il secondo disco, sia per quella perfetta liaison tra musica da colonna sonora e follie barocche), composti da canzoni sopraffine, curate e intense che portano i lavori ad essere sempre vicini a toccare il capolavoro, ma altrettanto deficitari di qualcosa che rendesse il tratto della polistrumentista americano proprio, perfettamente incarnato nella sua creatura St. Vincent, figlia tanto del suono di Madonna che delle dolci accortezze di Bjork. Questo nuovo lavoro riempe gli interstizi lasciati vuoti dai precedenti dischi (interstizi, spazi minimi appunto) e restituisce all’ascoltatore una musica completa e trascinante, che coniuga il cantautorato più raffinato alla completa follia della musica, presa in mezzo tra chitarre, elettronica massiccia e batterie incontenibili. Già dalla sola copertina del disco si intuiscono tante cose: è esagerata, stracolma di personalità, estremamente femminile, simbolo delle idee coraggiose e delle ambizioni più audaci, intrinsecamente cosciente della sua soggettività; in breve, una figura trionfante nel suo splendore. Ritratta seduta su un trono, con i capelli color platino, più artificiale rispetto alle copertine dei dischi precedenti ma, nello stesso tempo naturale al massimo, grazie al significato nascosto dietro una copertina così imperiosa, significato riflesso nel titolo di questo disco; omonimo come a dire: ecco, questa sono io, in tutta la mia autocoscienza. Dall’alto del suo trono St. Vincent controlla il suo regno, formato da terre misteriose, bizzarre, al contempo accessibili e complesse, sintetizzate in un caleidoscopio di pop, funk e mood avanguardistici.
L’apertura è affidata alla travolgente “Rattlesnake”, un lungo singulto funk in cui i synth allestiscono una marcia saltellante su cui si inseriscono le immagini disegnate dal testo, dal faccia a faccia con un serpente a sonagli alla domanda ironico-esistenziale “Am I the only one in the only world?”. La musica trasmette proprio l’essenza di questo particolare serpente attraverso rantoli e canti in coro agitati. Con “Birth in Reverse” (caratterizzata da un incipit fulminante e iconosclasta, “Another ordinary day/take out the garbage, masturbate”) si ha l’impressione di un suono che fa l’occhiolino alle chitarre taglienti di tanto indie-rock inglese ma che, al contempo, vive di una sua propria identità, non prendendosi troppo sul serio: chitarre distorte e affilate, batteria intensa e basso luce della notte. L’r’n’b di “Prince Johnny” si erge a dimostrazione dell’estrema duttilità della Clark che, su un elementare ritmo di drum machine e su un tappeto etereo, disegna con la sua voce la difficile storia del principe (“Prince Johnny, you’re kind but you’re not simple/By now I think I know the difference/You wanna be a son of someone); altrettanto dolce e profonda “I Prefer Your Love”, dedicata alla madre (“But all the good in me is because of you/It’s true”) che è il pezzo più intimo del disco, un capolavoro di leggerezza dove gli archi disegnano le impalcature subito riempite dalla drum machine minimale e dal trasporto emotivo della voce. “Digital Witness” è uno dei pezzi migliori del disco (e della sua intera carriera), intelligente critica al mondo dei social network (uno dei leit-motiv del lavoro), caratteristica dei tempi odierni (“Digital witnesses, what’s the point of even sleeping?/If I can’t show it, you can’t see me/
What’s the point of doing anything?”): si sente eccome l’influenza di Byrne in questo pezzo, con i fiati che si impongono nella struttura portante della canzone, che viene coadiuvata da un impianto ritmico marziale, impregnato di un groove che non riesce a non trascinare in un vortice inarrestabile. Il disco prosegue ancora su binari eccelsi con l’algido blues di “Bring Me Your Love”, le chitarre sempre affilatissime di “Regret” e la conclusione intrisa di soul tormentato di “Severed Crossed Fingers”.
Inutile ripetere quello detto in apertura, se avete letto fin qui intuirete le capacità immense di questo disco, nel quale St. Vincent si erge come nume tutelare di tutta la musica pop odierna (indipendente e mainstream, se vogliamo utilizzare queste etichette che con la nostra signora vengono abbattute) con cui sarà necessario confrontarsi da ora in avanti.
(Matteo Moca)