Il nuovo disco del fok-singer americano Robert Ellis, The lights from the chemical plant, riscuote vasti e meritati plausi, e offre l’occasione per celebrare come si deve – appunto – il folk visto dalla visuale dell’Americana” come fonte ispiratrice basilare, quell’estendere sensazioni ed emotività che paiono non avere nulla a che fare col tempo sgocciolante dei nostri – in fondo – giorni frenetici; tracce (undici) da considerare “da viaggio mentale” per antonomasia, un ascolto facile e galeotto per staccare momentaneamente la spina e consacrare il proprio essere a qualcosa che va per l’alto, ovvero all’insù.
La tracklist – senza mai inventare nulla di tutto ciò che sia già stato inventato nel genere – ricalca ottimamente la sorta di dotta canzone sognante, field per dirla tecnicamente, bella melodia di provincia yankee, amori, nuvole, Jackson Browne, James Taylor (“Bottle of wine”) per dare uno ieri cromatico e Bon Iver come traiettoria contemporanea, che si inoltra nei sentieri del romanticismo boschivo e nei cuori in vena di riscaldamento; l’artista texano – con questo nuovo capitolo discografico – vuole deviare dalle strettoie che spesso il folk-country comporta, ma forse la manovra gli riesce a metà, sì ci sono piccole areazioni poppys, ma poi quello che rimane stretta ed indissolubile è sempre quella dolce cavalcata mid-folk che assume quasi un tocco ed un emblema stilistico.
Un buon disco di musica riflettente, musica da meditazione d’anima e di transfert spirituale che da ad immaginare i grandi spazi americani e i territori illimitati della propria – e volontaria – solitudine tutta da gustare, tutta da assorbire lontano dai rumori e dalle titubanze dei giorni; la delicatezza di una ballata sospirata “Chemical plant”, la molla di un rock-folk southern “Good intension”, la sensualità mex sorniona “Pride” e l’esuberanza tradizionale di uno stompin’ scat Nashvilleano “Sing along” possono bastare per dare il profumo e la linea d’ascolto di questo buon lavoro, lavoro dove il tempo sembra bighellonare in complicità con una scrittura che – appena esaurita – fa riposare nella quiete di lontani – e mai accantonati – paradisi erbosi.
(Max Sannella)