Il lutto è un’esperienza con cui gli esseri umani dovrebbero rapportarsi il più tardi possibile, forse quando si riesce ad avere la necessaria comprensione che la morte è un passaggio naturale e obbligatorio della vita che tocca univocamente e senza distinzione di razza, sesso ed estrazione sociale tutta la specie umana. Nulla toglie che resta un momento devastante della propria esistenza, un dolore che la ventisettenne Nadine Shah ha dovuto gestire diverse volte nella sua giovane vita arrivando a scrivere molte delle pagine musicali del debutto su lunga distanza Love Your Dum and Mad, album che già da copertina e titolo diviene dedica e commemorazione per l’opera di Matthew Stephen Scott, un amico pittore morto suicida molto giovane.
Di madre norvegese e padre pakistano Nadine cresce a Whitburn, una piccola cittadina sulla costa nord est dell’Inghilterra, ben presto si innamora della musica jazz e della cantati con una voce androgina e importante come la sua, che sfiora il baritonale, tra tutte ci sono Etta James e Nina Simone, tuttavia nel suo personale pantheon trovano posto anche cantanti pop quali Mariah Carey e Whitney Houston. Si sposta con il fratello a Londra dove inizia a cantare al Pizza Express Jazz Club, a soli diciassette anni, e viene presa sotto l’ala protettrice di alcune leggende locali. Col tempo riesce ad incidere due Ep prima di arrivare al full-lenght in questione prodotto da Ben Hillier (Blur, Elbow, The Horrors, Depeche Mode) il quale se ne innamora, artisticamente parlando, dopo averla sentita cantare “Dreary Town”, primo brano in assoluto scritto dalla musicista inglese: spogliato da inutili orpelli, voce e pianoforte ballano un valzer di grande intensità ma allo stesso tempo intriso di tristezza poiché trascritto su carta in un pub due giorni dopo il suicidio del suo ragazzo (I’m not going to follow you to the ground/Darling I’m leaving this dreary town/I’m not going to follow you to the ground/When there’s greener pastures waiting to be found). Nei momenti in cui tutto viene scarnificato lasciando solo l’essenziale, il cantato resta in intimità con il piano e poche altre tenui texture sonore Nadine tocca certe profondità ascoltate in questi anni soltanto dalla coetanea Soap & Skin, questo avviene praticamente in tutta la coda finale del disco a partire da “Used It All” cui seguono “Dreary Town”, “Remember”, “Filthy Game” e la conclusiva “Winter Reings”. Ma “Love Your Dum and Mad” sembra diviso e pensato come una creatura divisa da due diverse personalità musicali, ognuna col suo carattere ben delineato e deciso, non è un caso se l’altro tema che brucia nel petto della Shah è proprio la malattia mentale affrontata di petto anche in “Floating”; Difatti se negli ultimi cinque brani si toccano vette di una drammaticità quasi fastidiosa per la sua bellezza i primi sei brani covano invece una direzione più arrabbiata che sprofonda nelle viscere del rock: partendo appunto dal trittico iniziale: “Aching Bones” ed il suo crescendo ansiogeno, molto PJ Harveyano che ritroveremo anche nelle successive “To Be A Young Man” e “Runaway”; il baricentro sonoro si sposta corteggiando prima i Bad Seed nella desertica “The Devil” e poi Anna Calvi in “Floating” e nella amniotica “All I Want”, quest’ultima con i suoi accenti placidi di elettronica fa appunto da spartiacque alle due metà del disco.
Nadine Shah potrebbe essere la figlioccia musicale del Nick Cave delle ballate assassine, anche se nel suo caso si tratterebbe più di “mental illness and deadly ballads”, tuttavia “Love Your Dum and Mad” è un disco strano per il modo in cui procede, attraversa una prima fase rabbiosa che mano a mano diventa sempre più lirica, quasi onirica ma non cupa, o comunque non sempre oscura, riuscendo a sedurre ascolto dopo ascolto grazie ad un cantato straordinario e al toccante songwriting di un’anima tormentata che ha tentato di fare del disco la terapia dalla quale uscirne nuova e purificata. Non sappiamo se ci sia riuscita, quello che sappiamo è che il risultato è un grande debutto.
(Antonio Capone)