“Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come gli altri un esplosivo inventerà, e quando i grandi terremoti non basteranno più un uomo un po’ peggio degli altri quell’esplosivo userà”. Tra i dischi da fine del mondo quello degli Egokid, il terzo in italiano dopo “Minima storia curativa” e il magnifico Ecce Homo, è quello meno paranoico e più pop: sono così composti e quasi allegri, gli Egokid, mentre cantano le nostre paure e le nostre ossessioni, che ascoltarli è come danzare sulle rovine. Del resto, gli Egokid hanno sempre affrontato con levità gli argomenti più duri e difficili, ed è un’abilità che hanno in pochi, sia nell’indie che nel mainstream.
Ma gli Egokid sono uno di quei gruppi che rendono vieta e inutile la distinzione tra indie e mainstream, e se mainstream assumesse soltanto il significato di canzoni intelligenti e fruibili, orecchiabili e accattivanti, invece che significare inascoltabili cariatidi e spazzatura da talent show, gli Egokid ruoterebbero pesantemente in qualsiasi radio, tv e network. Le dieci tracce che compongono Troppa gente su questo pianeta sono canzoni eleganti, ironiche, realiste eppure romantiche, che dal sentimento personale allargano però lo sguardo all’universale, a un mondo che continuamente promette felicità, induce desideri e poi li frustra,e in cui contenitori vuoti e spazi angusti spacciati come grandi paesi delle meraviglie e votati al consumo condizionano pesantemente il privato di ciascuno. Un pezzo come “Il Re Muore” (che apre l’album ed è scritto insieme a Samuele Bersani che lo ha inserito anche nel suo “Nuvola numero nove” con un diverso arrangiamento) esemplifica bene: fine di un amore, ma anche delle illusioni, “un sole che un tempo splendeva e che adesso muore”.La scrittura è elegante, l’interpretazione intensa, e gli Egokid amalgamano ancora una volta da un lato, con Diego Palazzo, il migliore cantautorato vestito di irresistibile pop, e dall’altro, con Piergiorgio Pardo, le signore della canzone che non ci sono più, Mina tra tutte, che magari incidesse pezzi come “La Madre” o “Il mio orgoglio”. Il quintetto milanese (insieme a Palazzo e Pardo suonano Davide Debenedetti, Cristian Clemente, Fabrizio Bucchieri e Giacomo Carlone) inaugura il 2014 con un album ricercato e sensualmente melodico, dalle tentazioni sixty magnificamente rielaborate (“Che tempo fa”) in un disco prodotto da Sergio Maggioni, mixato da Matteo Cantaluppi e masterizzato da Giovanni Versari.
Tra i pezzi migliori dell’album, oltre “Il Re Muore” e “La Madre”, anche “In un’altra dimensione”, sull’impossibilità di amare come si deve in un mondo agghiacciante, l’acuta “Non balliamo più”, ironico e lucido funerale a quegli stanchi residui di Milano da bere diventata oggi Milano da bare, e la deliziosa “La malattia”, da cui abbiamo tratto i versi che aprono questa recensione, e che, liberamente ispirata a Svevo e alla sua coscienza di Zeno, chiude efficacemente un disco che si fa non solo ascoltare, ma anche cantare.
(David Drago)