L’atmosfera soffusa e tranquilla del Tambourine ospita un pubblico raccolto. Il palco mercoledì 4 dicembre è per Daughn Gibson, musicista americano sotto l’ala protettrice della Sub Pop. Loopstation, chitarra e batteria si impegnano a creare un sound tra country, blues e southern rock. I cut up elettronici, molto evidenti sul disco d’esordio “All Hell”, dal vivo si smorzano. Prevale un sound fisico, sostenuto anche dalla forte presenza scenica del cantante e dalla sua voce baritonale. Alto, camicia a quadri, capelli corti e barba sfatta, nel fisico tradisce le sue passate occupazioni, dal camionista al batterista (stoner!).
I brani sono oscuri ma energici, degna rappresentanza di Gibson che cerca il contatto con il pubblico, lo invita ad abbandonare le sedie perchè sta per fare del rock’n’roll. Nessuno si alza ma al termine di ogni canzone l’applauso parte scrosciante e prolungato. D’altronde non è difficile farsi rapire dalla musica e dalla sua spavalderia, danza con l’asta del microfono e ipnotizza. E soprattutto nelle canzoni del suo nuovo album “Me Moan” ogni movimento colpisce nel segno e la voce ammalia, pericolosa o dolente. Una voce che guida una musica sensuale e decadente come in “Phantom Rider”. “Tiffany Lou” viene presentata come una “prom song”, una strana visione di piano, synth e loop di chitarra, in cui il campione di un vecchio disco si confonde e aggiunge una sorta di lamento, un pianto interrotto che fa da contraltare alla profondità empatica di Gibson. Altri brani invece sono “song for drunkard” e hanno il sapore un po’ tamarro del southern rock come “Kissin’ on the Blacktop”. Gli addetti ai lavori non hanno certo sprecato i paragoni, da Elvis a Johnny Cash, nomi importanti della musica, pietre miliari a cui Daughn Gibson avendo scelto un genere come l’Americana non si può sottrarre, personaggi da cui ha colto aspetti come l’emotività e anche la scanzonatura. L’utilizzo dell’elettronica, in particolare dei campionamenti ha reso il suo lavoro qualcosa più di un semplice revivalismo dei bei tempi andati ma un omaggio particolare alla tradizione musicale.
Dopo un set molto breve, quaranta minuti scarsi, il pubblico richiama i musicisti a gran voce, dopo un’altra manciata di brani vengono richiamati un’altra, e ultima volta. Con “The sound of Law” il ritmo serrato di una batteria da battaglia è contrapposto al cantato lento di una chitarra western, l’elettronica si insinua diventando struttura portante e chiudendo una performance intensa.
(Amanda Sirtori)
Foto: Fanpage di Facebook