La forte personalità romanesca del sestetto capitolino de Il Muro Del Canto torna in Ancora Ridi secondo disco di una realtà sonora che colpisce nell’immaginazione attraverso la sua forma poetica malandrina – nel senso popolare – e melanconica, quella “passione in dialetto” che straccia applausi al suo passaggio, folk-rock melodico e forte che riavvia il giro fiammante del cuore, quella sentimentalità pura e grezza che buca qualsiasi resistenza modaiola, commerciale.
Una dozzina di ballate amare, da balera di periferia, ricche di dettagli e angoli della vita comune, di quartiere e della città eterna che eterna a stretto giro – per politiche, malaffari, perdita di identità, umanità e quant’altro – si scioglie, amori che vanno e amori che spariscono e tutta quella disossata voglia di vivere pacificamente che sparisce ogni giorno, una tracklist che fa ballare e pensare nello stesso tempo, un abbraccio dal basso che unisce sfigati, lune avvinazzate e poeti di piazza all’ombra di una verità sempre più ingombrante, ma verità. I ricordi di come si era e di come si viveva sono integri in questo bel disco “piazzaiolo”, storie vissute e geneticamente antidive girano nel rotondo della plastica, ed il MDC ne accompagna il sangue a piene mani, personaggi di un tempo che si incastrano con le figure moderne di una umanità trasparente quanto corposa, e che tornano a comporsi giusto il tempo tecnico della trasmigranza di foto scolorite e di cantos di chi le ha incontrate, di chi li non le ha mai conosciute ma – di rimando – le fa rivivere.
Se pensate che il disco sia la colonna sonora di un mondo che non c’è più, avete fatto centro, e allora potete leggere le note e le parole che la band romana tra chitarre elettriche, rullanti, fisarmoniche e magoni grossi come mandarini in gola trasmette su ballate che troncano chi non ha memoria, ballate dai climax carrettieri (“Ancora ridi”), le stornellate (“Malefico”, “Il canto degli affamati”), l’allagamento di San Lorenzo (“Canzone allagata”), gli amori di traverso (“Peste e corna”) o il mood western che colora “Arrivederci Roma”; tutta ha una sua funzione, quella di dare una carica emozionale non indifferente, uno stravolto accoramento purosangue e antimercato che, se poi ci vogliamo mettere anche la versione Tarantiniana e in romanesco crudo di un canto funebre pugliese, “L’osteria dei frati”, l’abbandono dentro un ascolto senza tempo è cosa da niente.
Bollori, occhi lucidi e tex-mex de noantri garantiti.
(Max Sannella)