C’è una galleria di vite scomposte e viscerali che anima un suono, lo travolge, lo assimila. Mi ci sono persa dentro, un mese fa, e ho amato farlo. Mi sono ritrovata a contemplare, inerme, le parole potenti e chiarissime di un poeta moderno che mi ha fatto assistere a un atto unico e definito di intensità e bellezza. Quel poeta si chiama Emidio Clementi e i suoi personaggi, delineati con acume e gentilezza, se la vedono con la vita, parlano del mondo, soffrono, ansimano d’amore. Lo fanno all’interno di un mondo oscuro e famelico, dentro un disco Aspettando i barbari, in cui ci si può scontrare con figure all’apparenza normali, eppure avvelenate da tremori, da smanie, da ricordi nefandi. Si crea un ascolto che solca territori e spasimi, spalancando porte che avevamo deciso di non aprire più. A tre anni di distanza da Cattive Abitudini, Clementi e i Massimo Volume sembrano ancora più decisi a illuminare di grazia e solennità la storia della musica italiana. E sazi di un riscontro positivissimo da parte della critica, possono buttarsi, corpo e anima, nella dimensione live con un tour, iniziato il 31 ottobre da Ravenna, che li vedrà attraversare il Belpaese in compagnia di barbari e amici particolari come Mao, Chesnutt e Fuller. Livorno li accoglie nella loro seconda data con fedele devozione, come si deve ai maestri.
Un religioso silenzio ci introduce nel mondo dei Massimo Volume. Gli strumenti sul palco, estatiche medicine da somministrare a pazienti bramosi, uno schermo bianco, tavolozza per storie avvolgenti. Poi entrano loro, i guerrieri, furiosi e primordiali: Pilia, Burattini, Sommacal e infine Clementi. Si inizia, “Compound” risuona come un tuono. Chitarre imperative, un drumming tignoso e la furiosa epicità nella voce di Clementi. Si percepisce una tensione quasi sacra. I visual si fanno rosati, volano uccelli, sui tetti, suoi suoni. E corvi neri sembrano gli occhi di Emidio, teso di bellezza nel suo completo nero. Ci affidiamo a “La notte”, che ritorna costante, che ci ingloba senza sosta. Clementi posa il suo basso, avanza docile per dichiarare il tempo speso e accorciato in una “Litio” che graffia e distrugge, così densa di rabbia e nervosa elettricità. Ondeggia Clementi, le mani in tasca, come per un mantra. Afferra di nuovo il basso e con “Aspettando i barbari” la vena psichedelica post-rock si fa pulsante. Gli occhi chiusi di Vittoria, gli effetti delle chitarre di Egle e Stefano. Si fa acre la versione live de “La cena”, un pasto indiavolato, meno rotondo rispetto al disco. Pilia si contorce nelle digressioni chitarristiche, e con il tremolo distorce e incendia una babilonia di suoni. Tra urla disperate e imponenti chitarrone post-core “Dymaxion Song” si fa quasi claustrofobica. In prima fila noto un ragazzo che con l’indice puntato sembra quasi accusare la figura di Clementi, gli piaccia o no. Piovono dai led altissimi coni blu e con essi “Le nostre ore contate” iniziano a scorrere: Emidio si carica, si arrabbia, in cerca di un ardore antico e solenne. Le parole vivono, si muovono con noi. Nasce un applauso commosso, è tutto surreale e bellissimo: siamo invasi da una luce freddissima e comunque avvolgente. Sommacal, quasi in disparte, distorce malinconie sulfuree mentre la batteria di Vittoria evapora fino a scomparire dolcemente. E poi gli applausi, il boato, il desiderio di un ritorno. Da vincitori, ancora una volta. Posato il basso, Clementi declama il corpo martellante del “Dio delle zecche”. Le mani sull’asta, infervorato Mimì, un prete cecchino nel suo completo nero. La batteria sorda e precisa vive dentro una sfibrante armonia. Il pavimento trema, è arrivata la zecca. Incanta la figura di Clementi alle prese col ricordo di “Vic Chesnutt”, distorce le parole con la bocca, per farle uscire ancora più chiare. Stride la sua ira, i suoi ricordi obbligati. E poi quel ‘bad habits‘, urlato, come in una trance nevrotica, natural rimando alle cattive abitudini che Clementi conosce bene. Pilia, viscerale e fradicio, smuove chitarre noise per ritmi martellanti, Mimì si libera in un grido rotto, breve, secco. E “Il nemico avanza”, demonio malvagio in mezzo a basi liquide e ossessive. Clementi è tiratissimo, rosso in volto. Si asciuga il sudore, schiarisce la voce e poi ci racconta di “Silvia Camagni” che vive a Berlino ed esce la sera. Sommacal chiude gli occhi, Pilia vive dentro un’estasi quasi crepuscolare. Poi il silenzio, di colpo, il buio. Poche luci per un momento strumentale: Vittoria gioca con i mallet, Egle si abbandona a un lungo ed evocativo lamento, Mimì sta sullo sfondo, gonfia le guance per poi liberarsi di un soffio pesante. Ripartono, più indiavolati di prima con “Fausto”, una deflagrazione sincopata. Gli occhi di Emidio sembrano due grossi corvi che ti osservano dall’alto. “Bravi”, urlano dal pubblico. “Grazie”, risponde Mimì. Il tempo di una dedica -a Gipi, regista del video La cena, presente in sala- e “Da dove sono stato” diventa un testamento, un inno, anche fisico, con quel pugno alzato, con quel riso malefico a occhi chiusi, il viso rivolto al cielo. “Noi siamo o non siamo”. Una risposta sembra impossibile. ”Vi lascio…” recita Mimì, salutando con la mano sinistra. Tuonano gli applausi di
un pubblico ipnotizzato, attento, maturo. Una luce blu adesso illumina il palco vuoto che trema di vita in attesa del ritorno dei barbari. Meno di un minuto di tregua ed eccoli, di nuovo, pronti a terminare la loro guerra. Emidio carica la sua mitragliatrice, beve la sua birra, sorride appena sotto i baffi che non ha. Luci violacee fendono il buio, e fra accordi studiatissimi, riverberi, rullanti ora mefitici ora soffici, sembra di volare in quel monotono sublime tanto immaginato. In una bellezza senza tempo sale così l’attenzione per “Sotto il cielo”, che inebria e avvolge. Il parlato di Emidio è abrasivo, tignoso come affetto da un’alchimia antichissima. Ci guidano verso i fantasmi del novecento, quelli di cui non dobbiamo fidarci, quelli che popolano “Coney Island”. Lo senti questo suono? Sono i Massimo Volume, in stato di grazia. E ci si appresta al capitolo finale di un racconto che vorremo continuare a vivere. Se infernale si fa “Senza un posto dove dormire” ricca di tribalismi disperati, “Altri nomi” suona come una litania sacra. Mimì narra di case e letti di fiori, la voce è stridula e cattiva. Siamo spettatori di un’esplosione post rock meravigliosa. Pilia fa roteare la sua chitarra come un satellite impazzito, Clementi sussurra religiosamente al microfono il bisogno di uno slancio impercettibile.
Altri nomi, altri numeri, altri baci. Come quello lanciatoci da Mimì prima di uscire di scena, come un cuore sacro che ci eclissa tutti. Come una preghiera d’amore che sa essere corale -in un’estasi condivisa fra sconosciuti- e intimissima. Come un suono che ci segue anche quando dormiamo, affidandoci alla notte.
(Beatrice Pagni)
Foto: FataNera