Si dice che l’anima impieghi 23 secondi a staccarsi dal corpo o che la rassegnazione è un suicidio permanente, come che il buontempo si veda dalla sera prima oppure che gallina vecchia faccia buon brodo. Tutte chiacchiere che forse trovano il tempo che trovano come magari vere e proprie realtà, fatto sta che tra tutti questi luoghi comuni le trame pimpanti di una piccola leggenda trovano posto nei nostri amplificatori, e nei nostri sentimenti, e nella corruzione apertamente minacciosa delle casualità manifeste, la loro aura espande e titola a grandi lettere la parola “magnificenza”.
Tornano – rinnovati nello spirito e nel sound – gli olandesi The Gathering con Afterwords, l’album del rinnovamento o forse della rinascita, l’evoluzione stilistica della band che prende le dovute distanze dal doomy per volare alto verso stratificazioni eteree e a loro modo psichedeliche, un meraviglioso insieme di sensazioni elettroniche sofisticate e armonium mood che si estende fino alle propaggini Floydiane (“S.I.B.A.L.D”), vette sulle quali la voce di Silje Wergeland si muove come in un trapezio di lussuria elegante. Nove tracce che hanno la misura dell’infinito, tracce che non conoscono i limiti dell’ending classico come frontiera tecnica di fine ascolto, tutto è immaginazione cosmica e atmosferica che dal recente passato conserva solamente certi refoli folk, mentre si fanno avanti schegge di tribalità (“Tuning in, fading out”) e infinitesimali castoni poppyes (“Echoes keep growing”) . Ascoltando il disco tutto d’un fiato – circa 43 minuti di estasi altolocata – si coglie la netta sensazione di una comunicazione planetaria dettata da una non abituale malizia, un disco che “parla” attraverso visioni eclatanti, trasfigurate in un songwriting che non conosce pesantezza né tantomeno gravità; c’è poesia e rabbia delicata in questa tracklist che gli olandesi mettono in mostra, rabbia tenue che in “Afterlights” si tramuta in solennità da camera mentre in “Gemini III” si assume la responsabilità ragionata di un cantos allungato dalla Wergeland che sul finire sfuma in un mondo silenzioso e a parte. Con l’aria imperiosa e sottilmente orientale arriva “Sleep Paralysis” che riaggancia gli alambicchi Gilmouriane e si porta via con sé tutto lo spazio e le variazioni liturgiche della bellezza messa in musica.
Il ritorno dei The Gathering non passa inatteso o inosservato, torna tra fragilità emotiva e grandezza sonora, e se come si diceva all’inizio, che l’anima impiega ben 23 secondi per staccarsi dal corpo, dopo questo immacolato radente di vibrazioni, quel conteggio dei secondi è sicuramente da aggiornare in difetto.
(Max Sannella)