This has nothing to do with you. Questo non ha niente a che fare con te. È il titolo dell’opera di Ryan Mendoza, pittore americano, che campeggia sulla copertina di un disco tanto atteso. Due figure femminili chiuse in un abbraccio senza tempo. Un legame fortissimo con il tema dell’altro, del diverso, del barbaro. Che attendiamo sulla soglia, curiosi e attoniti, impauriti ed eccitati. E che si trova -allo stesso tempo- fuori e dentro quell’abbraccio densissimo. È un’indagine tanto umana quanto brutale quella compiuta da Emidio Clementi, un processo maturato in piena naturalezza e potenza.
I Massimo Volume si lasciano andare a vergate metalliche e liriche sulfuree per un nuovo disco fitto di presagi notturni e ansie universali. Ci sono le fughe, i nascondigli di una sola notte, le paure, il turbamento e la distruzioni di equilibri mutati col tempo. Ci sono i personaggi di Clementi, delineati con acume e gentilezza, che se la vedono con la vita, che parlano del mondo, che soffrono, che ansimano d’amore. A tre anni di distanza da Cattive Abitudini, i Massimo Volume danno alle stampe un nuovo figlio prezioso: prodotto insieme a Marco Caldera, Aspettando i barbari è stato registrato tra il novembre 2012 e il maggio 2013 fra Brescia e Bologna e vede la luce sempre per La Tempesta Dischi. Un ascolto che definisce teatralità ramificate, modella anatomie in cui colori e ombre sono dosate con un’afflizione quasi ciclica. Un disco che altera e stravolge nel suo manifestare alterazioni tra i personaggi che lo abitano: figure all’apparenza normali, eppure avvelenate da tremori, da smanie, da ricordi nefandi. Un’umanità che viaggia nel dolore, nello scandalo, ci passa davanti agli occhi senza mai implorare pietà. Clementi sembra dominare i propri racconti visivi, che si fanno estremi e dolcissimi, in bilico tra la necessità di ritrovarsi e la brama di sperimentare scenari disagiati. “Aspettando i barbari” apre così le porte di una ricerca inconfessata in mezzo a suoni distorti e specchi che deformano la realtà, così ricca di paure, inquietudini e fantasmi. Uno straniamento musicale nel quale perdersi, impazzire di gioie mai vissute e infine ritrovarsi come a casa, sopra un morbido divano, nel caldo tepore di un salotto ingiallito. Fondamentalmente un disco che parla dell’uomo, ponendolo di fronte ai propri limiti e alle proprie paure, facendo leva sull’immagine degli altri, e sulle storie narrate dagli ambigui personaggi che brulicano in questa bolgia sonora, bellissima e spietata. Un disco che solca territori e spasimi, archetipi, mostra figure, spalancando porte che avevamo deciso di non aprire più. Clementi scrive di quel bisogno d’amore e consolazione che tutti ci accomuna senza rinunciare a farsi carico del peso di questi tristi tempi, come un moderno Edgar shakesperiano.
È un corpo martellante quello del ”Dio delle zecche”, che si agita nella penombra di una batteria sorda e precisa come la lama di un sicario. Se è vero che “vince chi non si illude”, in questo omaggio a Danilo Dolci, c’è comunque un’armonia sfibrante che guarda lassù, nel cielo, in cerca di una vittoria terrena insieme a un dio da pregare in piedi, in mezzo alla strada o nascosti sotto il letto. Le estese digressioni chitarristiche de ”La cena” instaurano duelli possenti tra fughe e devozioni. Una guerra di anime e corde tesissime fino alla richiesta di aiuto, così sensuale così ciclica. Invocando una madre indifesa, riunendosi attorno a una tavola, si consumano fughe e dolori. La vena psichedelica post-rock si fa pulsante in ”Aspettando i barbari” sordido romanzo di attese, fughe e onori, in una notte che spezza la paura. Un desiderio di farla finita e ricominciare tutto da capo, una palingenesi che avviene grazie a un intervento esterno, all’arrivo di questi stranieri, perché da soli non si riesce a farlo. Il bisogno assurdo del cambiamento e l’ansia che cresce insieme alla speranza che la soluzione ai nostri problemi risieda proprio là, sulla punta di scintillanti lance barbariche. Le chitarre noise e i ritmi martellanti di ‘‘Vic Chesnutt” regalano un mantra à la Ginsberg costellato di rumori argentei e stridenti intrecci elettronici. Il dovere di ricordarlo, quel Chesnutt del titolo, eroe paralizzato su una sedia a rotelle, tanto fragile quanto possente, si sposa al ricordo dei suoi brani nei quali brancolavano le poesie di Wallace Stevens, le opere astratte di Philiph Guston, o i suoni proto punk di Ritchman fino ad arrivare ai Fugazi. Da notare il bad habits quasi urlato dallo stesso Chesnutt, natural rimando alle cattive abitudini che Clementi conosce bene. Versi ridotti all’osso per immagini monche che solo la musica può colorare di senso. Vi piaccia o no, non finiscono qui i nomi di uomini celebri: ‘‘Dymaxion song” è un tributo all’architetto e filosofo Richard Buckminster Fuller creatore di diversi progetti a nome Dymaxion, un composto aplologico costituito da tre tra le parole preferite di Fuller: DY (dynamic), MAX (maximum), e ION (tension) a sottolineare come egli intendesse ognuno di essi come parte di un vasto progetto per migliorare le condizioni di vita dell’uomo. Urla disperate e chitarrone post-core à la Slint impastano una sonorità claustrofobica, quasi acre, massiccia. Uno dei momenti più belli del disco assieme a ”La notte” che ha gli stessi colori di un racconto di Bassani, una galleria di anime perse che giocano fra gommoni e vite ormai rotte. Una notte che confonde e nasconde, che ritorna costante. Il bunker sonoro in cui sorge ”Compound” esplode fra chitarre ineluttabili, un drumming ferreo come una tigna e una inesorabile epicità sofferente. Pestate su pestate che macinano una tensione quasi aulica. E se ”Il nemico avanza” prende in prestito le parole di Mao Tse Tung per una svisata tenace e incisiva, impreziosita da basi liquide e ossessive, la chiusura con ”Da dove sono stato” cita Cage e di nuovo Fuller, Hockney e Steinbeck. Un congedo epico, fatto di nascite e rinascite, di fervore e innocenza, di uomini e donne che -come microbi spietati- si accartocciano fra le chitarre taglienti come lamiere e poi affogano nelle paludi limacciose e opprimenti.
Distillando frenetiche emozioni personali, Clementi si dimena fra parole straziate e dolcissime, fra sconfitte e titaniche resistenze in un poema umano che ha il sapore di un sale amaro, di una frustrazione feroce. La sinergia tra basso e batteria che si fa sempre più totale instaura un legame fortissimo con la parola, il suono di lettere che diventano vite, che muovono i propri passi nella bocca di Clementi. Elastica e pietrosa sa essere la batteria di Vittoria Burattini, ricche di spunti armonici e melodici le chitarre di Egle Sommacal e preziosi i riverberi elettrici apportati da Stefano Pilia. Palpiti martellanti su basi ritmiche durissime, quasi post hardcore si incrociano ai toni ossessivi ipnotici e disagiati che talvolta ricordano il sapore antico degli esordi con Stanze. Quelle di Clementi sono storie mute che vivono nei loro ritratti come fantasmi di se stessi. E i barbari che vediamo in lontananza sono gli stessi che possono nascondersi fra gli angoli fascinosi dell’incerto, dell’obliquo, dello squilibrio. I barbari vestono giacca e cravatta, hanno i capelli alla moda, sembrano persone perbene. Sempre tirati a lucido, praticano l’arte della menzogna e squarciano le nostre simmetrie consumando i propri giorni nell’attesa di poter cominciare a vivere. Kavafis o meno io li sento, i barbari sono alle porte, non resta che aprire e fare gli onori di casa. E che ci sfondino il cuore, sarà dolcissimo.
(Beatrice Pagni)