Quando arriviamo davanti all’Init c’è una discreta fila all’ingresso, calma, non molto rumorosa, soprattutto sorprendentemente una fila “vera” con le persone una dietro l’altra o al massimo a coppie che arrivano fino a oltre in cancello. Sembra che siano venuti in tanti a sentire la band texana che nessuno riesce a pronunciare al primo colpo (dite la verità). Un ottimo segno, insomma, che lascia presagire una serata importante e densa. Una volta entrati, nello smarrimento generale troviamo subito il banchetto del merchandising e vediamo che la band è lì seduta a godersi lo spettacolo del pubblico che piano piano si addensa. Ci rivolgiamo direttamente a Rob Lowe, che in veste di front man della band di Austin ci porta alla ricerca di un posto tranquillo dove parlare. Ricerca lunga che ci porta prima sul retro, ma il faretto sull’ingresso spara troppa luce, poi al cortile d’ingresso ma c’è ancora troppa confusione, allora fuori ma siamo praticamente in mezzo alla strada… alla fine sceglie un tranquillo e suggestivo parcheggio sotto i resti dell’acquedotto romano, illuminato di arancione caldo. Sì tranquillo, suggestivo e abbastanza appartato da sentirmi dire nel corso della serata da qualcuno che sembravamo tre spacciatori… cosa non si fa per avere un po’ della giusta atmosfera. Bene, siamo pronti, con l’affascinante rovina che ci ripara dal caos (purtroppo non dai rumori degli avventori in macchina e in moto in cerca di un parcheggio. Accontentiamoci).
Cominciamo con la prima domanda: questo per voi è il secondo passaggio dalle nostre parti nel 2013, giusto? Come vi trovate in Italia? Avete notato qualcosa di diverso dagli altri posti in cui avete suonato (nei club, nel pubblico, se avete suonato con qualche band italiana…)?
Credo che questo sia di fatto il nostro quinto tour in Italia e ci piace tantissimo venire qui. È davvero interessante come in Europa le cose cambino attraversando distanze così brevi, per esempio dalla Svizzera all’Italia, così vicine ma le persone sono così diverse, ed è fantastico. Ogni paese ha un’identità così forte e un proprio carattere, e l’Italia la amiamo perché le persone sono estremamente calorose e cordiali, vengono ai nostri concerti e sanno essere davvero di gran supporto… e ovviamente amiamo il cibo… e il vino…
…ultimi ma non per importanza…
…già, assolutamente! Sono una parte importante del discorso.
State approfittando di questi mesi on the road per provare qualcosa di nuovo, magari per qualche nuovo lavoro futuro? Dobbiamo aspettarci qualcosa?
In realtà stiamo suonando soprattutto pezzi dall’ultimo disco uscito a ottobre, “Stranger”, e stiamo ancora concentrati a promuovere questo disco, quindi la maggior parte di quello che suoneremo viene da lì, con qualche cosa di più vecchio e c’è una canzone nuova sulla quale stiamo lavorando, qualcosa di nuovo e qualcosa di meno recente.
Quindi potremmo dire che preferite comporre e lavorare ai pezzi nuovi in situazioni più calme, come provare a casa o in studio piuttosto che seguire l’ispirazione del momento che può venire magari andando in giro per posti diversi…
Beh, credo che di fatto noi non abbiamo mai davvero scritto mentre si è stati in tour. Sicuramente essere in tour ispira nuove idee, così ci potrà essere per esempio qualche pezzo di chitarra che ti viene in mente e pensi “hmm, mi piace… questo può essere un pezzo che potremmo riprendere e lavorarci su in futuro” ma in realtà non c’è proprio il tempo materiale per farlo. Quando si arriva in un posto ci voglio tre o quattro ore solo per sistemare le cose, fare il soundcheck… per cui non resta molto tempo per fare altre cose che esulano dal preparare la serata e assicurarsi che tutto funzioni per lo show.
Leggendo tra le tante interviste passate su varie riviste si trovano diverse definizioni per la vostra musica: post-rock, “new classical”…tante cose. E bisogna anche dire che il vostro sound è cambiato nel tempo, anche grazie ai vari cambi di formazione. Se doveste dare voi una definizione del vostro sound attuale, oggi, ottobre 2013, come vi definireste?
In realtà ancora non saprei dopo tutti questi anni, non credo ci sia una buona risposta a questa domanda… Penso che l’unico termine come “genere” che vada bene è semplicemente pop, nel senso più ampio del termine. Non è classico, non esattamente post-rock, non è folk… direi che questo è più che altro quello che non è. Se dovessi fissare un termine unico direi, nel senso più ampio musica, con cui le persone possano relazionarsi, insomma “popular music”, che le persone possano sentire vicina. So che forse non è una risposta molto soddisfacente ma davvero non ne ho una migliore…
…Beh, alla fine è la più realistica. Anch’io ogni termine che leggevo pensavo “sì ma… non esattamente… ok, ma non proprio post-rock…” insomma tutto quello che si leggeva di fatto era quello che non eravate, e alla fine ho voluto chiedere direttamente a voi…
Dovrei pensarci molto per una risposta migliore, ma non so cosa ne verrebbe fuori…
E se invece incontraste qualcuno che non conosce la vostra musica, che non è un vostro fan, c’è qualche suggerimento che gli dareste per meglio riuscire ad apprezzarvi (una situazione particolare, qualche attività da svolgere con la vostra musica, un posto…)? Qualche consiglio?
Consigli molto specifici non saprei, penso che la musica possa essere adatta a qualsiasi tipo di persona, giovani, meno giovani… chiunque può ascoltarla e trovarci qualcosa di sé. Quindi potrei consigliare semplicemente di fermarsi e ascoltare, o magari tenerla in macchina mentre si va in qualche posto piacevole. Ma anche in città alla fine, va bene qualsiasi posto, l’importante è che sia un’occasione in cui la si ascolti con attenzione, che non sia semplicemente di sottofondo, come a lavoro o al computer. Per il resto va bene ogni momento, anche mentre si prepara la cena, o si fa colazione.
Il fatto è che sempre tra le vecchie interviste si dice che prendete ispirazioni dai luoghi che vi circondano, dalla natura e i posti intorno ad Austin, così se qualcuno non può vivere le vostre stesse situazioni in qualche modo può ricreare la stessa atmosfera… forse i viaggi in macchina sono adatti. Anche se in macchina spesso l’audio è pessimo.
Non sempre, dipende dalla macchina” (cit. il fotografo)…
Un’altra cosa su cui molti vostri fans amano fantasticare è sentire la vostra musica come colonna sonora in qualche film, dato il potere evocativo; è stato anche fatto il nome di Terence Malick tra i registi che fanno dei lavori che sarebbero adatti alle vostre musiche (e per cui le vostre musiche sarebbero adatte). Oltre all’idea di prestare la vostra musica alle immagini, avete mai pensato di portare degli elementi visivi, come proiezioni o giochi di luci, a supporto delle vostre performance live? So che a volte possono essere anche una distrazione dall’ascolto…
Sì ci abbiamo pensato. È una cosa che vogliamo fare ma è difficile per due motivi: innanzi tutto non vogliamo fare come alcune band che semplicemente mettono su delle proiezioni, tipo vecchi filmati montati che non hanno un significato insieme alla musica, noi vogliamo farlo solo se veramente è qualcosa che sia a supporto della musica o se realizza un’idea creativa che vada di pari passo con lo show. Perché andando a molti concerti ho visto molte volte usate delle proiezioni che il pubblico è portato a guardare le immagini a scapito dell’ascolto della musica e, come dicevi, diventano dispersive. Penso che noi abbiamo già un sacco di movimento sul palco, ci spostiamo spesso mentre suoniamo e quindi credo che sarebbe più interessante lavorare con le luci sul palco piuttosto che con le immagini, ne abbiamo parlato molto ma è difficile. Siamo già sei noi della band, più un tecnico del suono, l’autista… abbiamo già a che fare con un sacco di cose per cui portarsi dietro anche una sezione dedicata alle luci diventa complicato da gestire.
*Anche perché dovreste specificare l’attrezzatura che chi vi ospita dovrebbe avere a disposizione sul palco, il progettista di solito non è un problema ma un’illuminazione specifica…
…devi sempre portarla con te. E non è affatto facile.
Sì quello che vorremmo che l’uno appartenga all’altro, qualcosa specificamente pensato per lo show. Se non riescono ad andare bene insieme meglio non farlo per niente.
*Posso immaginare che non sarà facile. Molto spesso le luci nei concerti, parlando da fotografo, non sono un granché. Si mette solo un po’ di roba che si muove e cambia colore ma senza avere uno scopo. Invece uno show ben fatto con dei veri tecnici delle luci è tutta un’altra cosa. Ma ci vorrebbe un tecnico bravo che sappia fare le illuminazioni e che lavori sempre con voi…
…e che porti anche dei creativi, degli artisti che lavorino con lui e con noi.
Ok, siamo all’ultima domanda. Come mai la scelta di fare musica senza cantato? Ci sono delle parti vocali ma non delle vere e proprie liriche… qualcosa che è venuto naturale perché vi trovavate bene solo con gli strumenti o una scelta ragionata?
Beh, direi che è stata più una scelta ragionata. Voglio dire, generalmente quando si parla di creare, ne abbiamo parlato anche di recente, a livello artistico sembra che le cose succedano da sole, o le insegui senza che necessariamente si decida di fare una determinata cosa, almeno per quanto mi riguarda. È difficile spiegarmi chiaramente perché è un concetto molto astratto… come se in realtà non per forza si decide consapevolmente tutto. Penso che sicuramente quando abbiamo deciso di mettere su questa band, scrivere dei testi e cantare non facevano parte di quello che ci interessava e non lo erano neanche della musica che veniva fuori spontaneamente. Forse se in quel momento avessimo avuto una parte cantata saremmo andati avanti e l’avremmo mantenuta, ma la scintilla immediata per quello che facciamo nella band non la comprendeva.
*C’è da dire che, di fatto, nella vostra musica ogni strumento “parla” a modo suo, ogni strumento ha il proprio linguaggio… non c’è una vera necessità di “sentire il canto”. Quello che mi chiedo a questo punto è se ci sarà mai spazio per un vero e proprio testo
La maggior parte della musica che ascolto è pensata con un testo… hai presenti i Dirty Three? Ho letto una loro intervista tempo fa, in cui Warren Ellis distruggeva l’idea che il termine “strumentale” possa insinuare che sia carente in qualcosa. È solo un ragionamento, ma parlava di come ogni forma creativa può essere vista incompleta solo perché non ha qualcosa come in questo caso un testo… non si tratta neanche di essere più musica o meno musica, è solo che non ha quello “strumento”
Guarda, non suonate affatto incompleti…
Sì in realtà nessuno se n’è mai lamentato… per fortuna.
In pezzi come “Fake Fealty” sembra davvero che ci siano due strumenti, che parlano, che comunicano tra loro… si parla senza parole… quindi ok, non c’è spazio per le parole, rassegnamoci.
Sorrisi, risate e digressioni… ma purtroppo il tempo stringe, è ora di tornare dentro. Sta già suonando JBM, l’opening act che li sta accompagnando in questo ritorno in Europa, e noi cominciamo a fare mente locale su cosa ci riserverà questo show.
Quando arrivano sul palco il pubblico tutto lì, stretto ma ordinato, soprattutto attentissimo e così resterà per il resto della serata (a parte qualche finezza del folclore romano come “ Dajeee!!!” tra un pezzo e l’altro, che comunque non disturbano assolutamente mai).
Si comincia con “Days” ed è difficile parlare di “folla che si scalda”, più che altro sembra travolta dal senso di calma che questo brano esprime nella sua leggerezza e nello spazio aperto che si porta dentro… la traccia che apre il concerto è anche la traccia che apre il disco, e la scaletta come ci è stato anticipato dallo stesso Lowe, si basa su quella di “Stranger” con qualche innesto vecchio e qualche assaggio di novità. Infatti, senza capire dove finisce la prima e dove comincia la seconda, si arriva a “Masollan”, con un tentativo di scaldare l’ambiente un po’ timido ma sicuramente sincero da parte della folla che forse non vuole interrompere il pathos che si era creato. Quando si fermano dopo “Masollan” per presentarsi anche il pubblico si lascia andare.
Ci si ritrova così in un oceano di suoni a navigare verso gli angoli di quiete più nascosti e inesplorati della mente. Si va dalle terzine di “Settler”, con quel fascino un po’ d’altri tempi, alla brezza calda di “Jubi”, l’«ode all’estate» annunciata da Michael Muller. Ma è con l’incisività di “Artifact” e i suoi passaggi dal rigore geometrico ai ritmi che si sciolgono che ci è più evidente quanti strumenti ci siano in una creazione dei Balmorhea, e quanto la band si muove, cammina, cambia posizione e strumento, in continuazione su un solo pezzo. Le geometrie si smembrano con la voce di Aisha Burns che è come un canto di sirena in mezzo alla tempesta, e scivola giù in fondo fino alla chiusura di “Steerage and the lamp” regalandoci un momento di rare bellezza e drammaticità, l’unico frangente in cui la voce si fa sentire forte spuntando da un tappeto strumentale fitto ed elaborato per poi lasciare la narrazione struggente agli archi. Dalla soavità di pezzi come “Shore” invece si sente (soprattutto se si guarda, poi si cerca anche di sentire) l‘immane lavoro di batteria che c’è dietro ogni brano, anche quelli dove risalta meno; Kendall Clark pesa i colpi di fruste e bacchette con bilancino di precisione millimetrica, fino all’impercettibile che fa comunque la differenza. Tocchi di una precisione sopraffina nel segnare, leggeri nell’accompagnare, netti a scandire i ritmi meccanici. I tantissimi suoni che una batteria può fare, tanti da non riuscire mai a immaginarseli, finché si alzano davanti a te dallo strumento e le mani di chi lo suona. Sempre restando in tema di percussioni, arrivano presto quelle leggere e vagamente caraibiche di “Pyrakanta” che prima accompagnano le armonie basse, poi quelle più alte del ritornello, miti e piacevoli tra chitarra e banjo e ritmo sincopato che addirittura il pubblico balla, stregato, chi sono mandando la testa da un lato e dall’altro, chi anche con spalle e braccia stile danza tribale in spiaggia. Sì le spalle scappano anche a noi, è irresistibile. “Fake Fealty” è l’ultima iniezione di energia, dopo i saltelli leggiadri di “Pyrakanta” arriva la forza trascinante di un brano dal ritmo incalzante e scorrevole cui il violino della Burns e il violoncello di Dylan Rieck si isolano e si cimentano in un dialogo a due sorprendente, uniti e diversi, uno sull’altro e uno con l’altro.
Gli ultimi doni che ci fanno sono le atmosfere gravi di “Truth” e poi la vitalità di “Dived”, il nastro e la coccarda in cima al pacco prezioso che ci hanno portato, con la promessa che ci rivedremo presto. Una loro promessa e una nostra caldissima speranza, quella di rivedere questa macchina fatta di mille ingranaggi perfettamente incastrati e in una sinergia di suoni e movimenti fluidi capace di liberare sensazioni note e profonde in maniera sempre nuova, unica, dal più grave dei lamenti alla leggerezza dei momenti più luminosi e assolati passando per scosse vigorose e paesaggi da sogno. Tutto lì, tutto da sopra un palco.
Live report+intervista: Carla Di Lallo
Interventi *: André Jansen
Foto (dalla 2 alla 5): André Jansen