La malinconia che aleggia su ogni nota di questo disco ha un non so che di molto seducente, che non la fa essere melensa, né pesante né stanca, che suona anzi viva e piena di energia, capace di attirare l’attenzione, sollevare la curiosità e di far pensare che questi InVinoFender qui possano saperci davvero fare e possano farcela a distinguersi nel mare di band italiane che ogni anno ci provano.
Un esordio discografico bello impegnativo per la giovane band campana, che si cimenta con un sound di matrice fortemente anni novanta in equilibrio dinamico tra sbavature indie, graffi alternative e carezze lo-fi, con un amore spassionato e tacitamente dichiarato per i maestri britannici dell’epoca (Radiohead su tutti, sia i più rockettari dei primordi che quelli maturi ed elettronici degli ultimi anni per la verità), ma anche concedendosi qualche esercizio geometrico e tagliente che rimanda più ai mai dimenticati ’80 (per esempio con “The hush behind”). Tutto ciò percorso da una vena inquieta e intimista che analizza i conflitti interiori che la quotidianità riserva all’uomo moderno con un cantato intenso e ricco di sfumature regalatoci da un Lo Savio in splendida forma, che deve tanto sì a Thom Yorke ma anche a Jeff Buckley.
Si comincia con il ritmo scandito dagli arpeggi secchi di “April and shower” che si aprono verso il ritornello e culminano in una coda post-rock battuta invece dal basso intelligente e accattivante di Del Gatto, la stessa impronta che ritroveremo anche in “Again” che forse sono quelle che pagano il maggior tributo a “The Bends”. Una bellissima spruzzata di grunge nell’atmosfera prog di “Dust”che con l’incalzare più indie di “Modern civilization benefits” forse sono i pilastri che meglio rappresentano e sostengono l’identità dello stile InVinoFender, tra influenze e suoni sempre coerenti e mai banali, freschi e forse per qualcuno “già sentiti” ma che in realtà lasciano intuire già delle linee d’inquadramento piuttosto nitide e ferme. Non mancano inoltre momenti più soft con le gelide ballate di cristallo della parte centrale del disco, episodi sempre ben riusciti con la giusta attenzione ai dettagli in stile Talk Talk (“Distance Scars” e “Economics”) e tutto il post- che non vi aspettate da una band all’esordio discografico che ritrovate in “Things change”. L’unica vera sorpresa (bella, s’intende) è l’ultima traccia, come il lento alla fine della serata, fatto per congedare dall’ascolto anche i più affezionati alla scaletta, “Catch the music into the room” ha il suono dolce del saluto della buonanotte, con cui la band si ripulisce da distorsioni e suoni abrasivi e si concede una coccola dal sapore buckleyano con l’intimità di chi si rifugia al riparo dal mondo.
Un disco sorprendentemente bello che riesce a rendere punti di forza quello che per molti rappresenta un limite, un lavoro che non nasconde le sue influenze e i suoi punti di riferimento, ma anzi li rende vitali e attuali in una forma originale sulla quale costruire uno stile personale e consapevole. Una band giovane davvero piena di speranze, che speriamo anche maturando possa continuare a dare un bel contributo a questa scena indipendente italiana che appare spesso persa in riferimenti sterili e produzioni piatte senza meta.
(Carla Di Lallo)