Ty Segall. Nome e cognome, non servono altre presentazioni. Sapete – o quanto meno dovreste sapere – quanto sia irrefrenabile, sapete quanto sia musicalmente bulimico. E dovreste anche sapere che non è merito suo, per lo meno non completamente.
A chiunque metta su un disco di Ty Segall appare infatti chiaro dall’inizio di avere a che fare con qualcosa di ben diverso da un venticinquenne della Bay Area incredibilmente talentuoso che sfoggia una collezione imbarazzante di camicie di flanella divertendosi a giocare con l’universo garage conosciuto: alle spalle di Ty Segall si staglia un’ombra possente, lo spirito di una creatività eternamente inappagata cresciuta a pane, fuzz e umori psichedelici, l’impulso che lo fa saettare da un progetto all’altro come una scheggia impazzita e che da sempre lo accompagna nel suo viaggio interiore.
Niente che non vi abbiamo già raccontato, se non fosse che ad appena un anno di distanza dall’uscita di Twins il rapporto che lega Ty Segall al suo spirito guida ha subito una radicale evoluzione: in mezzo ci sono state – in ordine – la promessa di godersi il meritato riposo dopo un exploit discografico a dir poco sorprendente, le allegre comparsate nel lavoro dell’amico Mikal Cronin e l’intrapresa dell’ennesimo side-project, questa volta alla batteria del power-trio Fuzz, originariamente scaturito da un’idea di Charlie Moothart e Roland Cosio (Epsilons, Charlie and the Moonhearts) con un album dal titolo “Loose Sutures” in uscita il primo ottobre.
Ma ai successi professionali si sono affiancati i dolori personali, la morte del padre e la chiusura dei rapporti con la madre: accadimenti così destabilizzanti da incrinare inevitabilmente i sentimenti di uno spirito altrimenti gioioso, troppo difficili da metabolizzare con un paio di schitarrate deliranti. Così Ty Segall, evidentemente travolto dagli eventi, infila la testa sotto le coperte come un bambino qualunque e si addormenta. E la sua ispirazione, a metà tra un’entità sovrannaturale e una creatura mostruosa fa lo stesso, prendendo questa volta le sembianze di uno spirito morfeico che lui chiama Sleeper (o The Man Man) e che diversamente dal Sandman che il folklore nord europeo e un certo pop americano ci hanno abituato a immaginare non porta sogni felici e zuccherosi, ma atmosfere terse intrise di malinconia.
“Sleeper” – che si alterna incarnando la Creatività, lo spirito del padre e Ty stesso – arriva come un’eco lontana, un flebile fischio che ne precede l’evocazione; e divora praticamente la metà del disco, quella descrittiva delle percezioni oniriche (“Sleeper”, “The Keepers”, “The Man Man”), immolata alle sofferenze per la scomparsa paterna, avviluppando il lavoro – registrato in presa diretta con l’intento di tirare fuori una raccolta di demo – in una spessa coltre acustica. Un risultato assolutamente spontaneo eccezionalmente trasposto in un songwriting più consapevole, concreto, utilizzato per descrivere ogni singola sfumatura di un momento di riflessione personale, ma anche per svelare un’inedita fragilità, la stessa che in passato ha portato la spinta creativa a sovrastarlo, esplodendo fragorosamente per poi trascinarlo maliziosamente a fondo nei recessi del suo animo.
Ciò che sorprende, però, è come Ty Segall sia a questo punto della sua carriera finalmente in grado di plasmare le sue ispirazioni. Non c’è più un impulso che dirama motu proprio da una fantasia sconfinata, ma un’attitudine chiaramente addomesticata, ridimensionata, accettata come parte di sè ed invitata a restare (“Oh Sleeper/don’t go away/I want to sleep all day with you”) nel mondo dei sogni, unica via di fuga per una realtà troppo amara da digerire, e nella vita vera: si, perché se da un lato l’album suona come se fosse sospeso in una controra senza fine, dall’altro il percorso intrapreso assume dei contorni sorprendentemente autentici, sovrapponendosi ineluttabilmente alle esperienze recenti. Emergono così note taglienti di biasimo dirette all’indirizzo materno (“Crazy”,“She don’t Care”) e l’incedere di “6th Street” e “Sweet C.C.” profila all’orizzonte paesaggi aridi e colori talmente intensi da rendere il confine tra sogno e realtà estremamente labile. Procedendo nell’ascolto l’intuizione che Ty Segall non sia più lo stesso diventa certezza: non è più il little boy blue che scongiura lo Sleeper di rimanere a fargli compagnia, ma un Uomo che approda all’età adulta e si affranca dalle ombre che attanagliano il suo cuore inerpicandosi lungo una strada completamente nuova; si apre così “Come Outside”, e le orecchie più attente si sorprendono a scoprire un incredibile spin-off di “Inside Your Heart”: ciò che prima era “won’t you come inside/inside my heart” diventa un invito alla libertà piena (“do you spend your time/inside your mind?/so come along/and carry on/and come with me/one day we’re gone/then come outside”). Libertà di pensieri e sentimenti, libertà di vagare senza meta al di fuori della propria mente, fianco a fianco con i propri demoni fino all’arrivo di una nuova notte, cullata da una “Queen Lullabye” delicata e struggente. Obiettivo unico è la pienezza, l’essenza stessa del cambiamento, e se come ha scritto Andrej Tarkovskij non esiste altro viaggio se non quello all’interno di noi, Ty Segall sa perfettamente che una scelta così importante non può prescindere dalla speranza di tornare al punto di partenza (“The West”), nel posto al quale si sente di appartenere, reale o immaginario che sia.
“Sleeper” è un sogno lucidissimo, che accompagna ciascun ascoltatore nel suo personale percorso di redenzione. Anche dove non ci sia niente da espiare, apre un passaggio tra le insidie che attanagliano la mente e il cuore. È un anelito di libertà assoluta, la sola alla quale si possa aspirare quando si guarda la vita con gli occhi di un bambino, ma la si affronta con l’animo di un uomo. Come fa Ty Segall.
(Marianna Sposato)