Fare il recensore colla fissa per i gruppi underground italiani debuttanti – quelli agli esordi, quelli di 15enni imberbi, quelli di 40enni che ci provano, quelli che suonano male, quelli che non sanno scrivere, quelli coriacei, quelli sottovalutati, quelli che si sopravalutano, quelli che rosicano su facebook per le recensioni negative, quelli che vogliono diventare famosi, quelli che sperimentano, quelli che si divertono, quelli che il vicino si lamenta – è un compito arduo. Simili band si trovano sempre in una situazione assai delicata per cui un critico di una webzine, modesta o grande che sia, potrebbe accelerarne o frenarne l’ascesa. Il compito è complicato dal fatto che i debutti raramente sono buoni dischi. Ancora meno spesso sono capolavori: nella pubblicazione “Rolling Stone’s 500 Greatest Albums of All Time” su 500 dischi stilati solo 79 sono album d’esordio, il 15% del totale.
A questo mettiamoci il fatto che stiamo considerando la situazione italiana: tanta passione, tante band ma pochi posti vacanti, e pochissimi soldi. Le produzioni dei debutti nostrani son sempre di qualità “casereccia”, roba che già è tanto che non dobbiamo più sentire i fruscii delle registrazione su cassetta. La direzione artistica è un lusso, figurarsi. Il meglio che l’artista italiano può fare con un debutto è stringere i denti e fare quanto basta per non farsi dimenticare e istigare un nuovo ascolto quando il suo secondo album uscirà, semmai uscirà. Qui non c’è l’NME che mette dei perfetti sconosciuti, freschi di scuola superiore, in copertina. E, così, il recensore di un debutto italiano non può non contestualizzare: in mano non può, come farebbe normalmente per un disco straniero, impugnare il martello del giudice bensì la matita rossa del professore. Di buzzo buono deve perciò esaminare tutto per bene e segnalare, argomentare, evidenziare, proporre. È un lavoro lungo e a volte noioso (ma in finale gratificante) che completa quello dell’artista: ne è complice, non antagonista. Innegabile che in questo ci debba essere un minimo di spirito protezionista nei confronti della scena nazionale.Tutta questa menata per dire che – fanculo – stavolta con Il Garage Ermetico, da Bergamo, un simile lavoro me lo risparmio perché il loro debutto è bello e basta e non mi fa faticare. Se fosse una banana si beccherebbe un bollino blu senza troppe storie.
Dopodomani a differenza del suo titolo non rimanda a un futuro prossimo promesse di musica di qualità sostenibile, è già un prodotto maturo che già al primo morso ha un sapore rinfrescante e multisfaccettato. Il Garage Ermetico mette sul tavolo un rock a doppia chitarra in cui quella solista danza come un pennello sulla tavolozza prendendo ispirazione dal post-hardcore e dall’emo con ripetizioni di riff calibratissime, inebrianti e mai soporifere o tedianti. Anche il tono generale è equilibrato: potrebbe da una parte facilmente esplodere nell’emocore (stile Fine Before You Came) e dall’altra dilungarsi nel post-rock. Ma in generale fa di testa sua e parte per la tangente verso la schizofrenia, anche vocale, del pop-rock avventuroso dei Marta sui Tubi, con risultati molto apprezzabili dal punto di vista della varietà e della complessità degli arrangiamenti. I testi poi seppur non troppo diretti e dunque – ahem – ermetici (nomen omen) sanno farsi apprezzare per le immagini piacevoli (“ricordi la pioggia pesante che cade/ dentro ai cortili e sui parabrezza/ pesci schiantati dalla tempesta” da “Buondì miseria”) che evocano e per come si stendono bene sul tappeto sonoro, a tratti anche in modo canticchiabile. In particolare il pezzo iniziale urlacchiato “Ladro di biciclette” è l’incipiti impetuoso che ogni opera prima dovrebbe avere. Mi piacerebbe sentirne una versione più sdrucita dal vivo, magari.
Insomma a questo punto non so cosa scrivere perché non posso attingere dalla mia riserva di “101 Consigli Per La Compilazione Di Un Migliore Difficile Secondo Album”: nessun “#45 leggete più libri” o “#10 cantate in una lingua che conoscete” e nemmeno “#3 cambiate amici se nessuno vi dice che fate schifo”. No. Niente.
Ma niente, proprio. Soltanto che c’è ancora speranza per la musica schitarrata in Italia (senza risuscitare ancora una volta i cadaveri del grunge o del post-punk) e, cioè, belle canzoni e tutto quanto, però 11 son troppe poche. An-co-ra! An-co-ra! Anc-or-a! A-nc-ora! A-n-cor-a! A-n-c-o-ra!
P.S.: quando il recensore perde professionalità vuol dire che lo stai facendo bene.
P.P.S.: non l’ho scritto nel corpo del testo ma un appunto c’è. Bellino l’artwork, davvero carino, ma nessuno del gruppo ha pensato che il color caffellatte non fosse proprio la miglior scelta per farsi notare? Al prossimo disco nero e senza zucchero, dai.
(Francesco De Paoli)