Accade che in un mattino di inizio Giugno Lenny Kaye si svegli e decida di tirare giù una lista della Garage Rock’s Next Generation: dieci nomi da tenere d’occhio, dieci tracce stilistiche estremamente diverse tra loro, lo sguardo che saetta dai ricordi impolverati della controcultura hippie all’irruenza di una gioventù reaganiana più che mai frustrata e disillusa; e l’orecchio che lo segue fedelmente, inerpicandosi tra articolazioni psichedeliche, divagazioni barocche e suoni ruvidi, a tratti scarnificati, minimamente arrangiati e sapientemente decostruiti. Il messaggio è molto chiaro: sul garage rock sorge un nuovo sole, e Lenny Kaye non fa neanche in tempo ad occuparsi di Jacco Gardner o dei The Hussy che in un’altra parte del mondo, al centro esatto della Penisola e a meno di ventiquattro ore di distanza, viene presentato Bright Sunrise, primo full-lenght dei Poptones.
L’estate di casa nostra inizia quindi con un’incredibile coincidenza, e lo fa da una cameretta, la MiaCameretta: e questa precisazione da sola è già sufficiente per distinguere un progetto assolutamente peculiare, che incarna perfettamente le fascinazioni di quel tipo di suoni e di cultura, ma lo fa con un respiro più ampio. I Poptones – che di nome fanno Filippo, Ettore e Simone – vogliono infatti viaggiare senza freni, in nome di una libertà che rifiuta ogni modo e forma di costrizione; pensano outside the box, e lo fanno letteralmente, rifuggendo i produttori senz’anima che vorrebbero prendere la loro musica e infilarla “in una scatola che rende tutto uguale”. Così le ispirazioni vengono lasciate libere di vagare tra oggetti di ogni genere e sorta scoprendosi attratte, di volta in volta, da contaminazioni sixties (“I Don’t Give a Fuck”) o late 70s (“Give me Your Ass”), fino ad arrivare ad uno stato di completo abbandono che le vede avvolte da atmosfere più sognanti, meno ovattate (“When They Close my Mind”) rispetto a ciò che la ligia applicazione di un’etica DIY potrebbe lasciar intendere. Ma andiamo con ordine. La prima cosa bella di “Bright Sunrise” è che sfrigola. Non solo oggettivamente (viene distribuito in vinile), ma anche concettualmente: ha un animo elettrico, che tradisce una frenesia facilmente intellegibile anche soltanto al primo ascolto, ma completamente avulsa da qualunque forma di ingenuità.
Come ogni disco garage che si rispetti è fatto di stratificazioni, un principio fondamentale (ed estremamente intelligente) per assecondare un numero sempre maggiore di ascolti; e, ancor prima di tutto questo, è un disco pop nel senso più banale del termine, orecchiabile, immediato, e nel contempo quasi feroce: mastica il pop, ne smembra i suoni e le attitudini e le restituisce a nuova vita, impastandole con ascolti estremamente attuali, che ricordano i Black Angels quanto i guizzi di Ty Rex. A tratti lezioso, affianca momenti di estrema leggerezza (“Rusty Car”) ad attitudini più riflessive: come se ciascun elemento compositivo si facesse lentamente strada per emergere da una coltre densa (il basso di “Instrumental Song”); gli elementi vocali vengono man mano lasciati indietro, con un’attitudine che omaggia magistralmente The Gun Club di Fire of Love (“Sam the Redhead Rockstar”, “Deserter Punk Song”), le chitarre esplodono sovrapposte e poi ripiombano giù, quasi sopite, per lasciare spazio a un sax di memoria Died Pretty (“You like the center”) che si perde in dissolvenza. Signori, è esattamente così che suona (e si suona) un bel disco.
(Marianna Sposato)