Spiegare le metafore, decontestualizzare i giochi verbali, i neologismi e i rimandi alla cultura di strada che sono il dna e il segreto dello stile della stragrande parte della musica Americana e precisamente quella ben inquadrata nel rock-folk, nell’easy listening di provincia o – per fare qualche passo più in la – nelle poetiche looner, è sempre stato ferro e fuoco per inchiostri critici o parolai di settore, poi quando progetti del genere, vedi questo The Ghost Of The Mountain dei Tired Pony, progetto sonoro creato da Peter Buck dei R.E.M. e Gary Lightbody, voce degli Snow Patrol, e che vede tra le fila anche da Troy Stewart, Scott McCaughery (Minus 5), Jacknife Lee, Ian Archer anche loro R.E.M. e Richard Colburn (Belle & Sebastian), ti assale la voglia frenetica di dire anche la tua a dispetto di te stesso.
Dunque secondo disco dopo il quasi anonimo “The Place We Ran From” del 2010 per questa super formazione che – messo immediatamente sotto il lettore – anche dopo il terzo lap fatica ad imprimersi in quella capacità forzuta che hanno i dischi imprevedibili e carichi di “cariche”, sembra un già sentito e dalla risulta energetica molto debole e fragile, vuoto di intraprendenza e da sottofondo come altri milioni di dischi lanciati all’aria dalle case discografiche; dodici tracce che scorrono lente nel loro agire ma molto veloci nel farsi dimenticare subito, un repertorio statico e alla lunga noioso che, nonostante la buonissima volontà (anche per i personaggi che ci girano dentro), fa quasi di tutto per lasciare all’ascoltatore il tempo necessario per cercare altro cui riempirsi le orecchie, e che già per stime e conclusioni oneste lo si paragona alla stregua del predecessore, praticamente nullo. Per un giudizio più ferrato in estetica non bisogna aspettare che la tracklist si allunghi fino alla fine del suo destino, eppure non si capisce – con queste forze umane e musicali che sono i Tired Pony – il perché di queste poetiche scariche, il motivo di tanto spreco per niente che si possa attaccare, ghermire, impigliare, in un minimo di interesse vero quanto meno per un minimo sindacale di auto stima; pop-rock venato di folkly digerito a iosa nel tempo (”I don’t want you as a ghost”, “I’m begging you not to go”, “The creak in the floor boards”), l’anonimo fatto musica in falsetto “The beginnings of the end”, la dance club per “Punishment”.
Per avere due piccole isole felici d’intimità bisogna aspettare l’open space della bella “Cave your names” e il solitario paroliere che “Your way is the way home” sospira amichevolmente, ma è davvero troppo poco per l’intero diametro di un disco che vive nel mainstream producendo niente davanti ad un disco underground che a confronto può dettargli – e lo fa – legge. Della serie, non pervenuto, avanti altro.
(Max Sannella)