Volvedo è l’omonimo album d’esordio di questo quartetto umbro, nato nel 2008 dalla fusione di due precedenti progetti. Marco Polito (chitarra e voce), Ivan Gentili (basso, synth e voce), Angelo Aloisi (chitarra e voce) e Igor Montani (tromba, Octapad e batteria), ci propongono un lavoro difficilmente classificabile in un unico e ben definito genere o filone musicale: elementi principalmente, ma non solo, rock, alternative e cantautorali si fondono in questo prodotto made in Italy 2013. Questi 57:24 minuti di musica riescono a mescolare generi e influenze all’interno di una stessa traccia, e il risultato sono pezzi articolati, talvolta lunghi, che cambiano registro, si calmano o si arrabbiano all’improvviso, stravolgendosi, ma mantenendo un filo conduttore, spesso dato dai testi, particolarmente incisivi e ricchi di immagini.
Con “Il cibo degli astronauti” il disco si apre in modo energico e melodico, per infrangersi subito dopo su una parte rapida stoppata che spezza il ritmo e apre la strada alla strofa, dove il testo la fa da padrone, per poi lasciare spazio a un’ampia e interessante parte strumentale che porta a conclusione il pezzo. “La rivolta del sale” viene lanciata da un attacco di batteria semplice quanto continuo e incalzante, ed è nel complesso breve, potente e incisiva. “Amaranto” prende il via su tristi note di tromba e si sviluppa in stile cantautorale, con chitarra ritmica e un testo forte ed espressivo; nonostante il cantato sia la spina dorsale di questo bel pezzo, gli strumenti sviluppano un sottofondo crescente, fino a esplodere, a metà canzone, per renderla aggressiva e potente, fino a un’ultima e triste strofa. Altro pezzo forte di quest’album è “Strapparsi le orecchie (al passaggio dei jet)”, traccia lunga ed elaborata, che parte con un cantato quasi parlato, accompagnato da chitarra e tamburo da marcia che crescono, fino a esplodere in un grido, per lanciare un pezzo nuovamente aggressivo e carico e con un testo arrabbiato, per poi spegnersi sul finale, con note di chitarra quasi psichedeliche e spaziali. L’ultimo dei pezzi che vorrei citare è “Figlio unico”, che chiude il disco. Il pezzo, che è il più lungo (8:20 minuti) presenta nuovamente un cantato\parlato cantautorale, che si appoggia su una melodia lenta, quasi stanca, e delicata, che crea un contrasto con le grida d’ira della voce e comincia a cambiare a metà pezzo, quando il testo s’interrompe, diventando prima più densa di suoni, poi più incalzante e infine nuovamente sovrastata dal cantato, per poi spegnersi definitivamente e porre fine all’ascolto di Volvedo.
L’esordio di questo quartetto è, in definitiva, un prodotto valido e coinvolgente, particolare nell’articolazione dei pezzi e nell’alternanza di diversi stili; forse non apprezzabile facilmente al primo ascolto, proprio per via di questa complessità, ma sicuramente convincente e incisivo.
(Alessandro Dati)