L’importanza di chiamarsi Michele, il primo disco ufficiale di Federico Cimini, è un concept album che racconta le (dis)avventure di Michele, un figlio del sud che, deluso dalla società in cui vive, prima fugge all’estero e poi ritorna nella sua terra. L’idea di improntare il lavoro in questa direzione è nata dopo un viaggio in Svizzera, dove il cantautore calabrese (da anni residente a Bologna) ha conosciuto Michele e la sua storia. Il disco comprende in tutto quattordici tracce, incluso un omaggio a Gianni Rodari (la sua poesia “Promemoria”, contro la guerra); quattordici tracce da leggere, da ascoltare e nelle quali in molti avranno modo di immedesimarsi. L’uscita del disco, prodotto dalla MK Records con il sostegno di AudioCoop, è stata accompagnata dal singolo e dal video di “Questo è il mio paese”.
Insomma, sulla carta ci sono tutti gli elementi che dovrebbero farmi scrivere di un ottimo lavoro, di un disco che (finalmente) racconta senza peli sulla lingua i problemi che riguardano la società contemporanea, dove per molti ragazzi spesso espatriare diventa davvero l’unico modo per potersi realizzare. Invece, pur essendo un disco coraggioso e per certi versi necessario, ci troviamo davanti a un’occasione mancata. Questo perché Cimini, sin dalle prime tracce, sembra volersi accontentare di ricalcare ora un Vasco Rossi agli esordi, ora Simone Cristicchi o il solito Rino Gaetano, appoggiando testi (a volte) interessanti e di denuncia su musiche che non riescono a osare, che hanno ritornelli spesso scontati (uno dei tanti esempi è “La rivoluzione in pigiama”). Si potrebbe quasi dire che questo lavoro, musicalmente, è un passo indietro rispetto a “Canzoni clandestine”, il secondo ep digitale uscito lo scorso anno.
Non basta parlare di omosessualità (“La distinzione”), dei militari all’estero (“Un militare”), della rivoluzione da social network (“La rivoluzione in pigiama”), della fatica di arrivare a fine mese (“Questo è il mio paese”) e dei tanti problemi che affollano il belpaese per realizzare un buon disco. Ci vuole altro, quell’altro che qui manca. Manca il coraggio di trovare una propria voce, di sviluppare meglio un’idea che poteva essere vincente. La disparità tra la qualità dei testi e quella della musica è, purtroppo, evidente per l’intero ascolto.
La sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di già sentito, di vecchio, è immediata; si avverte già nel singolo, il cui video omaggia (anche) Bob Dylan. È un ascolto che, se ripetuto, diventa greve, un lamentarsi che non trova soluzione. Anche provare a immedesimarsi nell’illusione e nella disillusione del personaggio, tra ironia e speranza, riascoltare e comprendere in pieno la storia di Michele e della sua coscienza, purtroppo non cambia il risultato. Cimini poteva osare di più. Spero se ne ricorderà nel prossimo lavoro, dimostrando l’importanza di chiamarsi Federico Cimini.
(Marco Annicchiarico)