Il progetto Melt Yourself Down è presto spiegato: basta leggere i nomi dei protagonisti coinvolti (il sassofonista Pete Wareham – Acoustic Ladyland; Polar Bear – alla voce Kushal Gaya – Zun Zun Egui – al sax Shabaka Hutchings – Sons Of Kemet; Heliocentrics – al basso Ruth Goller – Acoustic Ladyland – alla batteria Tom Skinner – Hello Skinny; Sons Of Kemet; Mulatu Astatke – alle percussioni Satin Singh – Fela!; Transglobal Underground – ai quali si aggiunge John Leafcutter che inserisce strati di elettronica qui e là) per comprendere che si è davanti ad un lavoro che fa della contaminazione sonora in tinta jazz / afro beat la sua cifra stilistica.
Eppure, mettendo su il disco (da considerarsi il debutto di questa formazione che trova in Pete Wareham il primo aggregatore), si ascolta qualcosa di ancora più interessante, come se il risultato finale trascendesse dall’addizione delle singole professionalità coinvolte, per dare forma ad un crogiolo ritmico degno dei CAN, dove si ritrovano i tribalismi tipici del continenti africano, il groove dell’ethio-jazz, le orchestrazioni in odor di Heliocentrics ed anche certo punk “bianco” a là The Ex. Un ritmo incandescente attraversa gli otto brano in scaletta (il trittico in apertura “Fix My Life”, “Relase!” e “Tuna” entra nella testa e non ti abbandona facilmente) impedendo a chiunque di stare seduto; la compattezza sonora è mirabile – i musicisti coinvolti sono professionisti di tale cifra che si potrebbe parlare di supergruppo dell’afro beat – e anche dal punto di vista della scrittura dei brani c’è un’alternanza tra impatto e ricercatezza sonora che rende il tutto un’avventura da non perdere!
Sul web si parla già di “Afrocentric jazz-tinged tribal pop”, noi consigliamo di non badare ad alcuna definizione e di lanciarsi all’ascolto del disco a mente aperta, godendo di tutte le influenze tribali/spirituali che inevitabilmente questa musica porta con sé, buon divertimento.
(Maurizio Narciso)