Secondo album, a distanza di 5 anni dal debutto (nel frattempo, innumerevoli le apparizioni in compilation nonché in Festival elettro-fashion come il Sonic): DJ T.O.M. (Thomas Bertelsen) e Buda (Torsten Jacobsen), entrambi provenienti da partnerships eccellenti con personaggi quali Trentemøller, Laid Back, TelepopMusik, Cirque de Soleil, sono i Lulu Rouge, che esplodono il loro suono tiratissimo e colorato di venature acide e amare nello splendido The song is the drum.
Bellissime le voci qui impegnate, le danesi Annisette Koppel e Asbjørn, Alice Carreri, Tuco e l’islandese Fanney Osk, il tutto in un calderone scandinavo di rara intensità ed eterogenea potenza. Ombre e scie di Massive Attack nonché Orb, echi smisurati e linee inquietanti si alternano senza tregua, fino a ipotesi di rivisitazioni stilistiche di Bjork (“Sign me out”) dotate sempre di classe e stile. La title track è dark senza fondo, martellante e fluida, mentre episodi più eterei quali “Romano song” o “Welcome to my dream” riportano il discorso musicale da canali esclusivamente electro ad atmosfere più dimesse e raffinate. Apprezzabili le scelte di sonorità un po’ retrò, sfuggendo da facili down-tempos e accarezzando linee di confine tra l’ambient e la sperimentazione rumoristica. Soprattutto gli episodi con la bella voce di Fanney Osk risvegliano dal sogno e si propongono come ottimi singoli (la preferita è “Landscape of love”). Possibile colonna sonora di una gita in Cornovaglia d’inverno, “Ghost Mosquitos” è tutto quello che di più minimal abbia il disco, completando il variegato territorio d’esplorazione dei Lulu Rouge, ottimo esempio di moderna cultura del suono digitale. Riverberi e ancora riverberi, questo è il mondo rimbombante di una dimensione parallela a quella terrestre.
(Gabriele Gismondi)