Cambiano i tempi, le persone crescono e maturano, crescono le barbe fuori luogo, tutto assume un senso diverso se lo si osserva ad età differenti. È il caso dei Fast Animals and Slow Kids, band umbra già conosciuta per il loro primo, furioso, album “Cavalli”, a cui fece seguito un imponente tour che li portò a suonare dappertutto in Italia, dopo aver vinto un Italia Wave ed essersi imposti grazie alle opening-act per gente come Zen Circus, Teatro degli Orrori e compagnia cantante. Finite le meritate “spintarelle”, il gruppo di adolescenti maturi si ritrova in riva ad un lago, in uno studio di registrazione, ad analizzare punto per punto questi due anni senza sosta, per il puro piacere di stare insieme, suonare, sfogarsi, parlare. E il risultato sono le undici tracce di Hybris, il disco più bello che si potesse chiedere ad una band italiana del 2013. Hybris è fuoco, è lacrime, è respiri, è sangue pompato nelle vene ed è una ninna nanna colorata, è un calcio in faccia ed una pacca sulla spalla, è un disco bello, punto.
Se è vero che parlare di musica è come ballare di architettura, ancor più difficile è descrivere un disco bello, punto. Un po’ perché, ad onor del vero, sembra di trovarsi di fronte ad un’unica canzone lunga 43 minuti circa, tanto è omogeneo quest’album, un po’ perché alla fine le parole son sempre quelle, la melodia è accattivante, per gli anglofoni catchy, la musica è sempre coinvolgente/ruvida/esaltante etc. e non mi pare il caso di sprecare parole rockiticamente preconfezionate per questi ragazzi su cui ho messo gli occhi addosso molto, molto tempo fa, e che ora mi stanno dando soddisfazioni enormi. Se li conoscete da “Questo è un cioccolatino”, non potrete non emozionarvi per gli innumerevoli progressi, tanto musicali quanto letterari, fatti da Aimone, Alessandro, Alessio e Jacopo, non potrete. Vi basterà paragonare uno qualsiasi dei loro pezzi precedenti ad uno qualsiasi dei pezzi di “Hybris” (da pronunciare UBRIS, non IBRIS) per accorgervene. Senza scomodare per forza “A cosa ci serve”, pezzo-manifesto del disco, ma con ogni probabilità pezzo-manifesto anche del gruppo, ma anche, più in generale, di un momento storico particolare nelle vite di chiunque, che chiunque ha provato ed è in grado di capire.
Badate bene che qui non si esagera, gente. Di musica bella ce n’è a palate in giro, ma di musica che riesce ad arrivare al centro dritto per dritto, scavalcando gli strati di ossa, muscoli ed emboli causati dalla nicotina ce n’è davvero poca, pochissima. E i Fast Animals and Slow Kids sono uno dei simboli di questo tipo di musica. Politicamente si direbbe che i FASK parlano alla pancia del popolo. In realtà sarebbe una presa di posizione pregiudizievole e stitica far loro una colpa del fatto che si preferisca parlare in una maniera assolutamente deliziosa di sogni, speranze, violenze, solitudini invece che menarsela con “Oh, porcoddue, io ho letto Stanislav Bryhrkioroskij e tu no”. Partendo già da “Un pasto al giorno” e sparandosi a manetta la prima parte del disco, è apprezzabile la serentià con cui i quattro perugini snocciolano la loro consapevolezza alle orecchie di chi sta a sentirli, nominando fatti, sensazioni, pensieri ricorrenti ma non per il fatto di essere luoghi comuni bensì per il fatto di essere patrimonio mondiale delle emozioni umane. La delusione e la rabbia, la paura e la voglia, esplodono nella quinta traccia, “A cosa ci serve”, già nominata, ma si ritrova davvero in tutti i pezzi dell’album. Meno uno, la pecora nera, “Maria Antonietta”. Spero che quel pezzo sia una trovata discografica per spezzare la tensione che si crea lungo le sei tracce precedenti, e più in generale spero che questo pezzo, pur essendo pubblicato, venga suonato pochissime volte, cozzando terribilmente nell’impasto di “Hybris”, e sembrando soltanto una copia sbiadita di altri pezzi.
Davvero difficile da ascoltare, nonostante stia consumando l’album più per passione che per poterlo recensire. Togliendo quest’ultima macchia nera, la cui connotazione cromatica è comunque soltanto frutto di impressioni soggettive, “Hybris” è il disco che stavate aspettando, un disco bello, punto. Le speranze a vent’anni (che peraltro è una frase di “Farse”), passati i venti si fa sul serio. E si fa musica bella, punto.
(Mario Mucedola)
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