Brutti, sporchi e cattivi? No, macché, quello è uno stereotipo demodé nel mondo del rock. Avanti, dovreste aggiornarvi perché non è nemmeno più il tempo del sesso, della droga e dello sballo. C’è crisi e allora tocca essere tutti un po’ più buoni, solidali almeno, cercare di essere migliori. Come? La risposta potrebbe stare nel recupero delle tradizioni e nel mito della semplicità agreste. Il vento delle tendenze, comunque, è sempre molto strano perché non sai mai da che direzione arriva e, soprattutto, non capisci dove ti spinge. La fila all’ingresso dell’Atlantico garantisce, certamente, che quel vento sta investendo un po’ tutti. E non sarebbe sbagliato parlare di fenomeno planetario. Sì, perché, alla fine, i Mumford & Sons sono proprio così.
Due album all’attivo, poca fortuna per il primo (come spesso capita) e tanta, forse anche troppa per il secondo, arrivato a soli tre anni di distanza dall’esordio. Se dovessimo giudicare la distanza tra “Sigh no more” e Babel su un’ipotetica scala di misura, non basterebbe nemmeno quella che intercorre tra Europa e America visto che adesso nelle classifiche di vendita i nostri baldi campagnoli sono primi dappertutto e questo non succedeva dai tempi dei Pink Floyd, quindi fate un po’ voi. Tornando alla notte romana, l’impressione è che il popolo dei Mumford segua i propri idoli allo stesso modo in cui i Papa Boys si comportano nelle giornate mondiali della gioventù con il Santo Padre. Tutto divertente, tutto bello e musica di grande qualità. Si comincia con le Deap Vally, duo californiano che potremmo certamente definire come le “Pink Keys”, in onore dei
più grandi e già affermati Black Keys. Le ragazze ci sanno fare e così, su due piedi, la Fender della biondissima Lindsey Troy, chitarra e voce, si fonde alla perfezione con la batteria di Julie Edwards. Certo, le ragazze sono tutto rock e sudore ma il momento migliore o meglio, i momenti, vengono raggiunti quando dividono il palco prima con Winston Marshall, al banjo nella squadra di Marcus, e poi con Ted Dwane che nella stessa band suona il basso. Il cambio di set e la piccola pausa sanciscono, finalmente, l’ora dei nostri. La gente accoglie i Mumford & Sons con un entusiasmo travolgente e loro ricambiano offrendo la loro fine arte che non è mai da sottovalutare. L’attesa mediatica per uno show sold out da settimane è pienamente giustificata, nessun dubbio. Il gioco di luci, le melodie e il mood della serata, a momenti, fanno venire i brividi.
Bello, davvero. Durerà? Per adesso sembra che i ragazzi venuti dalla campagna abbiano ridisegnato un’estetica, per primi, e aperto la strada a tanti altri gruppetti che, come loro, cercano di tirare fuori dalla semplicità del folk le risposte alla frenesia della vita.
(Gianpaolo Campania)
Foto: Iuri Martelli