I Low, attivi da più di vent’anni, sono un gruppo che considerare di culto è forse riduttivo. Lenti, soavi, leggeri e intensi, i pezzi dei Low sono perle di pop minimalista realizzati solo con l’utilizzo della classica strumentazione rock (chitarra, basso, batteria e voce). The Invisible Way è il loro decimo album in studio e per l’occasione hanno ingaggiato come produttore uno loro grande fan, il leader dei Wilco, Jeff Tweedy.
La traccia d’apertura e primo singolo estratto “Plastic Cup” è un pezzo classiclow, ma con una secca chitarra acustica a sostituire l’elettrica utilizzata più di frequente. Ad emergere sono le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker, stagionate con gusto e suadenti come da tradizione. Niente di più, niente di meno. Manca l’atmosfera, manca la tensione, mancano i Low e questo potrebbe compromettere la riuscita del disco. Questa anti-atmosfera si conferma anche nella succesiva “Amethyst”. Per riconoscere una parvenza dei vecchi Low bisogna aspettare “So Blue” e “Holy Ghost” pezzi in cui la voce della Parker la fa da padrona come nel suo capolavoro vocale, “Slide”, ma sempre in questa nuova anti-atmosfera, ancora troppo poco per risultare convincenti. Dal quinto pezzo, “Waiting”, possiamo sentire una certa risalita, o, per meglio dire, ridiscesa nel mondo sommesso e malinconico della band. “Clarence White” soffre ancora a causa della chitarra acustica e di un handclap non proprio convincenti, ma è un pezzo vincente per la cosa migliore che i Low sanno fare: melodie indimenticabili. “Four Score” inizia come un pezzo dei Guano Padano (?!), ma vira subito sui terreni leggeri dei nostri, senza lasciare traccia, però, nella nostra memoria. Dopo sette pezzi sottotono rispetto a quello che i Low ci hanno donato in questi anni, arrivano quattro tracce che, se raccolte in un semplice EP, avrebbero fatto una gran bella figura. “Just Make It Stop” accelera il ritmo ed è un pezzo semplicemente stupendo grazie ad una melodia radiofonica, ma calata nel contesto unico della band. “Mother” sembra una triste filastrocca dai toni quasi fanciulleschi. “On My Own” è il pezzo che stacca dalla tradizione, infatti, dopo un inizio quasi spensierato si cade in un nugolo di distorsione, dai toni quasi psichedelici, per poi ripiombare nella melodia semplice e il ritmo altalenante della canzone. Si chiude con l’intensa “To Our Knees” forse l’unico pezzo che si lega con forza alla tradizione dei Low per carico emotivo e sonorità.
Riassumendo l’impressione è che da una parte l’ispirazione del trio americano si stia lentamente assottigliando, riducendo la quantità di pezzi di qualità, ma a deludere maggiormente è la produzione troppo semplicistica e secca, per permettere la creazione di quell’atmosfera che solo e, ripeto, solo i Low sanno donare.
(Aaron Giazzon)