Quando le prime note di questo disco iniziano a scorrere e ci si addentra nel primo brano, “German Fields”, si ha come l’impressione di trovarsi vicino a una sorgente d’alta quota, da cui sgorga fresca e pura acqua montana. Il brivido è leggero, limpido e ricco di vitalità. Questo è il sogno della fredda, accogliente Islanda. Questa è Ólöf Arnalds. Questo è il suo nuovo lavoro: Sudden Elevation.
Il disco precedente, “Innundir Skinni”, risalente al 2010 e anche il suo EP “Ólöf sings” avevano avuto un grande successo di critica. Ma questo album è un’altra cosa. Non è soltanto il suo primo lavoro interamente in lingua inglese ed è qualcosa di più di un susseguirsi di tracce sconnesse e diverse l’una dall’altra. “Cercavo sempre di vedere il disco come un insieme concettuale, tenendo a mente un certo ordine delle canzoni mentre registravamo”, spiega l’artista, “Ho disegnato mappe diverse di come il disco avrebbe dovuto suonare ed essere percepito come un unico lavoro completo, che è qualcosa che ho davvero sentito di voler fare, essendomi stata data la prima opportunità in vita mia di avere un processo di registrazione continuo”. Infatti è la prima volta che Ólöf si trova a poter registrare un intero disco senza troppe pause e senza momenti di deconcentrazione. Insieme al suo collaboratore più stretto, Skúli Sverrisson, ha potuto dedicare alla registrazione di questo lavoro tutta la sua ispirazione, tutto il suo amore per la musica e per la sua terra. E’ proprio in Islanda, precisamente in una casa sul mare a Hvalfjörður, che nell’autunno del 2011 è nato “Sudden Elevation”. La voce di Ólöf ci accompagna in un racconto tutto basato sul suo particolare timbro (per descriverlo, le migliori parole sono quelle usate da Björk, secondo cui la vocalità di Ólöf è posta a metà “tra quella di una bambina e quella di una donna anziana”) e su leggeri accompagnamenti musicali di chitarre e charango, con l’intervento di qualche percussione appena accennata. Le storie che ci racconta sanno di neve e muschio, ma anche di un calore casalingo che ci abbraccia, mentre un po’ assonnati, avvolti nel tepore del nostro maglione e del caminetto che scoppietta, osserviamo il freddo e le ombre invernali passando lievemente il dito su una finestra appannata.
Un piccolo spiraglio di quel sole pungente tipico dell’isola del ghiaccio (o almeno dell’Islanda che da sempre immagino io), sbuca a sorpresa con “Numbers and names”, insieme alla sovrapposizione di voci che la caratterizzano. Insomma, un viaggio che vale la pena di compiere, insieme a questa artista polistrumentista che merita un posto d’onore nella rosa sempre più ampia di artisti islandesi. Consigliato a noi che sogniamo l’Islanda, i suoi colori, il suo limpido abbraccio, i suoi cieli. Forse è giunta l’ora di prendere l’aereo e andare a vedere se è come ce la immaginiamo. Perché magari è ancora meglio.
(Francesca Rifiuti)