Oslo Tapes è l’ultima incarnazione dell’artista Marco Campitelli (the Marigold) che, con l’afflato di Amaury Cambuzat ed una pletora di collaboratori sonici, danno vita a questo progetto omonimo intenso, liquido e sottile che dispiega una tassonomia di atmosfere di abbandono fisico per riprendere i filamenti di quello interiore, una prospettiva onirica e angolare che fluttua, fluttua nell’aria senz’aria come un memoir aromatico d’assenzio.
Ombre, scuri e allucinazioni rumorose, software umano di pulsazioni e pesi metaforici, quello che scorre è una ossessione professionale che stimola incessantemente il peso metaforico dell’esistenziale come ambientazione del dintorno, del viscerale delicato che brucia e raffredda ogni processo di semplicità. Undici traiettorie che non rivendicano la sacralità di qualsiasi materia o la scarnificazione come segno di salvezza dal delirio, ma un infinito trainspotting nella teatralità del concettuale e nell’urgenza di comunicare l’ingombro che in fondo l’uomo vuole e non vuole abbandonare.
Il suono totale di questo disco si dedica alla tensione longitudinale che come un filo di acciaio, di una lama o addirittura di una bava di luminescenza taglia e nega nel contempo ogni ritaglio di ottimismo semplicistico, tutto è parola e insonorizzazione quasi come una orfanità biologica e vitale che si disperde per ritrovarsi più in la in poesia agonica, ai margini della forma compiuta; Oslo Tapes è sfuggente, una tracklist sostenuta da una forza magmatica e inquieta, brani che si avviluppano tra prese e rilasci sigillanti (“Attraversando”, “Nove illusioni”, “Marea”), sottosopra negli accenti greenly di “Distanze” o nell’elettricità deformata che si fa eco dentro “Nel vuoto” fino al battito industriale che assottiglia ossigeno tra le volte di “Les elites en flammes”. Ogni soffio è scandito da una purezza aliena, stesa sulla frontiera della ragione come in cerca di verifiche da rifondare tra corredi di Nono e rilevazioni alla Glass ma che poi spiana frontalmente in un ascolto dallo spirito dreamly al limiti di una cosmicità scoscesa quanto prensile (“Crocefissione privèe”).
Il nutrimento che questo lavoro discografico ci da è nel suo sperdimento, nella sua bellissima dissipazione nell’oscurità che va e viene come un riflesso intellegibile, più o meno una sublimità che castiga il tempo sfuggente dell’indefinito.
(Max Sannella)