MBV non dice niente. È inutile affannarsi in un elogio immaginifico che promani da una spinta nostalgica di chi si è innamorato del fratellino introverso del noise, quello shoegaze dedito ad un’inclinazione più meditativa, riflessiva e sognante propria di una sensibilità diversa, espressa nel respiro di speranza che esala da un’indole rumorosa di distruzione creatrice.
È una questione di aspettative. MBV soffre di un problema fondamentale (verosimilmente frutto di una scelta consapevole di Shields e soci), che in ambiti di analisi decisamente più noiosi potrebbe essere chiamato hold-up, o rischio di cattura: il riconoscimento di Loveless come opera imprescindibile, di una prestanza esagerata, incide universalmente sulle prospettive di ascolto, e il risultato – evidente – è il marasma di reazioni contrastanti, che rende di fatto impossibile formulare una valutazione pienamente oggettiva. Non potremo mai ragionare lucidamente, e per quanto sia evidente il fatto di ascoltare una cosa che non cambia di una virgola il modo di suonare di vent’anni fa, dove finisce la tenerezza di un apprezzamento nostalgico inizia il problema di un’opera che non scuote, non crea un punto di rottura, non ci prova neanche dalla copertina. Ricordatevi “Loveless” e arriverete a provare qualcosa che somiglia alle sensazioni che Loveless vi ha procurato: ma sicuramente non molto di più e parecchio di meno.
È un limbo. Come se gli umori che residuano da “Loveless” cercassero di farsi disperatamente strada in mezzo alle polveri accumulatesi per vent’anni, ma rimanendo (volutamente) soffocati sotto uno strato di piacevolissime dissonanze che sono, però, costruite a partire da “Loveless”. Così, dove la prima metà dell’album potrebbe essere interpretata come una sorta di ideale reprise (di una noia mortale), si cade in un’inerzia che si interrompe, fortunatamente, nella coda del disco (“In Another Way”, “Nothing Is”). Basta questo per apprezzare MBV nella sua completezza?
A voler essere intellettualmente onesti, pur nella comprensione del fatto che il percorso di crescita dei My Bloody Valentine è più che concluso (e ormai da molto tempo), ci sarebbe da eccepire ad artisti che hanno saputo modificare così sensibilmente la storia della musica, la banalità di una scelta di comodo. Perché, in un panorama così saturo di proposte, MBV ottiene esattamente il risultato voluto: più che superiore alla media. Ma se ne poteva anche, e tranquillamente, fare a meno.
(Marianna Sposato)
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Per iniziare dirò qualcosa di originale, che finora hanno detto in pochi: “Loveless” era un capolavoro, per ragioni che ci sono state ben note una volta abbandonata l’idea di canzone che avevamo, e qualunque disco gli faccia seguito non potrà mai esserne all’altezza. C’è da aggiungere che dopo una attesa di ventidue anni – dai risvolti mitici ma terminata
mestamente un sabato sera come tanti di inizio febbraio – non è facile prevedere quanto resti dei My Bloody Valentine che conoscevamo.
Questi ed altri pregiudizi su MBV svaniscono però in tutta la loro banalità assieme all’attacco di “Only Tomorrow” che ci restituisce con gli interessi quello che in fondo desideravamo tutti, la ragione per cui non stavamo più nella pelle, una sorsata di anni novanta bevuta alla fonte. Altri brani sembrano non esserne ugualmente capaci (confido di saltare abbastanza spesso l’ascolto di “If This And Yes”) ma a parte la personale passione per “New You”, il brano meno sperimentale del disco e tuttavia non per questo meno eccellente, “MBV” regala il suo meglio alla fine, nell’intreccio di chitarre e nella batteria infaticabile di “In Another Way” e nel loop acidissimo di “Nothing Is” che qualcuno potrebbe persino accostare all’industrial.
Considerato che un altro Loveless non sarebbe stato possibile, MBV è quanto di meglio i fan dei My Bloody Valentine potessero aspettarsi, un’opera di altri tempi e insieme attualissima per le stesse identiche ragioni.
(Alberto Mazzanti)
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Mi trovo nella sempre orribile situazione di dover fare una recensione oggettiva ad un disco di un artista o gruppo che amo particolarmente. I My Bloody Valentine li ho conosciuti tardi, appena qualche anno fa, ma fin da subito sono stati capaci di attirarmi nel girone infernale dei fissascarpe cronici, grazie alla caratteristica che da anni li impone come vero e proprio gruppo-cult in tutto l’Occidente, ovvero il muro sonoro. Realizzare un muro sonoro non è esattamente un’impresa impossibile, bastano delle chitarre molto distorte e molto riverberate, un basso anch’esso imbottito di riverbero ma ha valore essenziale una coordinazione che oserei definire estrema nel controllo degli effetti, onde evitare di valicare la sottile linea che intercorre tra il muro sonoro e il delirio musicale. I My Bloody Valentine sono oltre questa concezione paradigmatica della musica, loro col rumore creano delle armonie. Se qualcuno di voi ha dubitato anche solo per un secondo che 22 anni di distanza da un disco all’altro potessero creare delle cadute impietose (chi ha detto “Chinese Democracy”?) beh, ditegli di chiudere quella boccaccia. “MBV” è semplicemente un album leggendario. Kevin Shields non mi è mai sembrato un tipo con le rotelle a posto, e lungo queste nove tracce non fa altro che confermarlo. In “MBV” ci sono paranoie, ossessioni, paure e slanci di un’improvvisa giovialità bipolare che rendono il disco un’opera letteraria in tre capitoli. Il primo capitolo occupa lo spazio di tre pezzi e lo chiameremo “pt.2”, per le sue atmosfere molto vicino a quelle di “Loveless”, quasi come se questo disco contenesse gli ultimi pezzi di quello precedente, e se “Only tomorrow” fosse stata proprio l’ultima traccia del disco del 1991, nessuno avrebbe avuto da ridire. La seconda parte, chiamata “Noncrèd”, può essere anche saltata, a meno che non preferiate le delusioni allo “skip”. La terza parte, invece, la chiameremo “Miele”, ed è quella che vale il costo del disco, gli ultimi tre pezzi, il momento culminante del finale travolgente, e vorrei che inventassero un modo per farsi iniettare sottopelle “Nothing is” e “Wonder 2” affinché chiunque possa sempre ricordarsi che la musica è cuore, corpo e anima. E riverbero.
In estrema sintesi non lasciatemi scrivere ancora, prendete questa recensione come un delirio e cestinatela, poi però ritagliatevi 43 minuti, sprofondate in una poltrona ed indossate cuffie che sparino ad alto volume “MBV”. Capirete cosa intendo dire.
(Mario Mucedola)
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Tanto si può dire sui My Bloody Valentine, tranne che siano prolifici. “M B V” è il loro terzo album, dopo 22 anni di latitanza. Se grazie a “Loveless” hanno definito e battezzato lo shoegaze, cosa aggiunge questo nuovo lavoro? È senz’altro difficile imbracciare nuovamente gli strumenti e dare un seguito ad un’opera tanto celebrata e ammirata. In genere si cerca un punto di rottura oppure si prosegue sul selciato, astutamente fedeli al sentiero tracciato. Kevin Shields e compari scelgono una via di mezzo. Si (auto)celebra in brani come “Only tomorrow” e “In another way”, in cui la voce esile di Bilinda Butcher si insidia tra i riverberi della chitarra. I minutaggi generosi cullano le parole sussurrate, il suono è ancora attuale e dimostra come fossero stati dei precursori all’epoca. Proprio al centro delle nove tracce arriva il distacco, l’estremizzazione di “Is This and Yes”, in cui l’organino iniziale detta un ritmo ossessivo e statico. Un ambiente sterile e puro, asettico eppure emozionale. Sugli stessi passi anche “If I am” che apre nuovamente la via al colore drammatico degli effetti, delle distorsioni, della vita.
(Amanda Sirtori)
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È uscito come un qualsiasi disco di una qualsiasi band autoprodotta. Senza regole. Senza preavviso. Senza promozione. Ha una copertina orrenda e un nome scontato. Se non fosse che il disco in questione si è fatto attendere ventidue anni e che da anni (dalla riunione del 2007!) le scarne dichiarazioni del maestro Kevin Shields avevano lasciato intendere l’uscita di nuovo materiale allora nessuno si sarebbe mai accordo più di tanto del nuovo disco dei My Bloody Valentine.
“M B V” è un disco di nove tracce che odorano, trasudano, (quasi) puzzano di anni ’90. Anzi! Hanno proprio il gusto di inizio anni ’90, di periodo pre-grunge, di anni ’80 agli sgoccioli e soprattutto sanno di My Bloody Valentine! E questa è la cosa più importante! In questo periodo folle in cui tutti sembrano la copia di se stessi e i cloni abbondano, soprattutto in un campo minato come il rock-super-effettato, mantenere la propria identità senza uscire troppo dal seminato pare la qualità più importante dei gruppi di vecchie glorie che non riusciamo a smettere di ascoltare. La band irlandese, negli anni, dopo il trionfale ritorno alle esecuzioni dal vivo non toppa nemmeno il ritorno nel mondo discografico piazzando un disco sicuro, maturo (come definirlo altrimenti!) e soprattutto intenso. Le distorsioni sature e suadenti sono sempre al loro posto, le melodie piacevolmente pop reggono le fila del discorso, alle volte così distorto da risultare quasi inconcludente e le ritmiche scandiscono con precisione un tempo che sembra fermarsi alle volte per poi tornare alle deflagrazioni sonore che tanto piacciono agli appassionati e non della band. Le iniziali “She Found Now”, “Only Tomorrow” e “Who Sees You” sono puro dream pop distortissimo. “Is This and Yes” si regge solo su un giro asettico di synth melliflui senza lasciare traccia nella mente. “If I am” è un pezzo sbilenco in cui voce e musica sembrano andare ognuna per conto suo, mentre “New You” è il pezzo più debole a causa della mancanza delle solite distorsioni e di una melodia quasi banale. Le tre tracce finali sono le migliori del disco per intensità e carica sonora. “In Another Way” è alienazione e dolore, ma racchiude una melodia splendidamente dilatata. “Nothing Is”è un noise spezzato e sempre uguale a se stesso senza via di scampo. “Wonder 2” finisce i timpani con un fiume di feedback e delay con una batteria sparata e robotica a fare da sottofondo.
A conti fatti non siamo propriamente di fronte ad un capolavoro, ma ad un disco degno del nome dei My Bloody Valentine, che sebbene ci abbiano fatto penare anni per il nuovo lavoro, non hanno disatteso le aspettative confezionando il disco della maturità.
(Aaron Giazzon)
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I My Bloody Valentine di Kevin Shields hanno scritto una pagina nella storia del Rock. Punto. Ma erano gli anni Novanta. Di loro si ripete lo stesso refrain: “alfieri dello shoegaze”, “incomparabile muro del suono”. In attività da metà anni Ottanta, il loro percorso musicale è segnato da due pietre miliari, “Isn’t Anything” del 1988 e “Loveless” del 1991. Di questi album si è detto di tutto, e tutto quel che si è detto aveva connotazioni indubbiamente positive, per usare un eufemismo. Il loro sound ha marcato indelebilmente quegli anni e ha, di fatto, contaminato qualsiasi genere a venire. Questo perché sia dato a Cesare quel che è di Cesare, come si suol dire.
Però… ascoltato e riascoltato questo “M B V”, che esce dopo ben 22 anni dalle ultime produzioni ufficiali, l’entusiasmo non sale. Vorrei urlare che è un ritorno in grande stile ma non posso, potrei gridare al capolavoro assoluto ma non voglio, mi piacerebbe ascoltarlo continuamente e con passione ma non riesco. Tanto per essere chiari, il disco è solido, dà l’impressione di essere un lavoro che non scende a compromessi, se è vero che quando si tocca il fondo si può solo risalire, è anche vero il contrario, raggiunto l’apice non si può che discendere, magari lentamente, senza cadute libere, ma sempre di discesa si tratta. Ora, dopo due decenni dall’ultima vera pubblicazione inedita, ci si ritrova con questo MBV, che forse ha al suo interno più risorse di quante sveli ai primi ascolti… Forse…
Leggendo le prime recensioni apparse qua e là sulla stampa estera sembra che nessuno abbia il coraggio di sbilanciarsi, nel dire se l’album sia bello o brutto, se il Ritorno tanto atteso c’è effettivamente stato oppure no. Se dovessi calarmi nei panni del critico musicale direi: “M B V” è un disco corposo, interessante, da esplorare nelle sue mille sfaccettature, che ripropone un tappeto sonoro già conosciuto ma rinvigorito e potenziato, anche se la ripetizione quasi ossessiva che li ha contraddistinti fin dall’inizio è priva di quel contorno di melodie e soavità canore che li rendeva magici, sopraelevati e assolutamente unici.
Se invece dovessi dare un giudizio da ascoltatore direi che non mi sarei persa questa release a prescindere dal suo valore intrinseco, perché i My Bloody Valentine sono i My Bloody Valentine, e se la loro discografia fosse un puzzle, questo sarebbe il tassello mancante. Ma non lo inserirei tra i dischi migliori di quest’anno e constaterei che se Kevin Shields è un genio, spesso i geni sono incompresi, e io, questa volta, non l’ho compreso.
(Patrizia Lazzari)
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I My Bloody Valentine si formano a Dublino nel 1983, gruppo alternative rock, inventori del sottogenere shoegaze in cui si fa abbondante uso di effetti sulle chitarre, tornano dopo due album in tre anni (1988 e 1991) e ben diciannove anni d’inattività (1992-2013) in cui sono stati rilasciati vari ep, ma nessun nuovo album. Fino ad oggi.
“M B V” è uscito in digital download e su youtube il 3 febbraio di quest’anno e si presenta tipicamente saturo di effetti e caotico di volumi com’è tipico dei pezzi di cui il chitarrista Kevin Shields è, ancora una volta, il principale autore. La formazione del gruppo è ancora quella che risale al 1987: Kevin Shields, Colm O’Ciosoig, Debbie Googe, Bilinda Butcher. Il disco si apre con “She Found Now”, pezzo calmo e tranquillo (è perfino assente la batteria) con un cantato un po’ onirico e sospirante da parte di Shields, supportato da abbondanti effetti e riverberi sulle chitarre, com’è tipico del genere. “Who Sees You”, terza traccia, presenta una batteria che “sveglia” il pezzo a contrasto, però, con gli effetti di chitarra che invece “frenano” l’andamento del pezzo, mentre il cantato è ancora molto onirico e distante. “Is This And Yes” comincia invece con un suono nitido di tastiera i cui accordi costituiscono la spina dorsale di questo pezzo per tutta la sua durata e su cui s’inseriscono i vocalizzi eterei di Bilinda; la stessa canta anche il pezzo successivo, “If I Am” che ritorna invece al formato canzone con un giro di chitarra molto meno effettato rispetto ai primi due pezzi e su cui s’inseriscono, a tratti, suoni sintetizzati. Una batteria molto dinamica introduce “In Another Way” e la trascina per tutti i 5:30 minuti di durata, circondata da effetti di ogni tipo su cui ancora il cantare di Bilinda Butcher spicca cristallino. La nona e ultima traccia, “Wonder 2” è un continuo crescendo di batteria, chitarra ed effetti, su cui s’inserisce a tratti il cantato, che riempie e satura sempre di più, fino all’inserimento della tastiera per poi continuare ancora crescendo per poi improvvisamente dissolversi quasi tutti e lasciare solamente la batteria sovrastata da un suono che sembra un aereo in decollo per un’altra manciata di secondi fino alla fine del pezzo e del disco.
(Alessandro Dati)
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21 anni e 3 mesi dopo, eccoli qua. Come se il tempo si fosse fermato Kevin Shields e soci sfornano il seguito di “Loveless” e ci riaccompagnano dentro quelle atmosfere che nessun’altra band, in questo mastodontico arco di tempo, è più riuscita a replicare con identica intensità. Il problema, o il limite, che denuncia “M B V” è proprio questo, che sembra davvero che da “Loveless” non sia passato un giorno ed invece in mezzo di cose ne sono successe e sono passati quasi ventidue anni di musica, più o meno bella.
L’attesa per questo terzo full length era spasmodica e se un simile arco di tempo è trascorso in cerca di una qualche perfezione sonora dobbiamo dire che Shields ha forse fallito; se invece l’attesa è stata dovuta ad una qualche stanchezza “M B V” fa perfettamente centro, restituendoci la band irlandese impeccabile e padrona del suo shoegaze, tanto è vero che quando partono le note di “She found now” è impossibile non fermarsi un attimo e quasi commuoversi, catapultati di nuovo nel 1991 e nelle sonorità di “Loveless”, di cui questo primo brano sembra essere un out-take. La successiva “Only tomorrow” è più elettrica, più vivida, a dimostrazione che i My Bloody Valentine sanno ancora coinvolgere e scuotere come un tempo, tra un tappeto di synth e un ensemble di suoni unico nel suo genere, mentre le voci si muovono soffuse e appena percepibili. “Who sees you” parte esplosiva, regalando quel “meraviglioso caos” chitarristico che è parte integrante del suono di Shields e soci e che rende sempre spettacolare perdersi nel loro ascolto e vagare con i propri pensieri in un’altra dimensione. Con “Is this and yes” i My Bloody Valentine si spostano invece su sonorità più ambient, certamente un’evoluzione rispetto alla loro carriera precedente; i synth si fanno melliflui, dando vita ad un suono liquido su cui la voce di Belinda Butcher si adagia perfettamente. “If I am” gioca con la sensualità vocale di Belinda, accompagnata stavolta da suoni meno soffici e più viscerali, sensuali anch’essi: si crea uno straordinario gioco d’incastri per cui anche le scarne dissonanze presenti nel pezzo finiscono per essere elementi di un’omogeneità e di una fluidità musicale che è caratteristica principale del sound di Kevin Shields e compagni La successiva “New you” è invece davvero qualcosa di nuovo, nel suo essere incredibilmente pop: paradossalmente il brano meno mybloodvalentiniano del disco, risulta debole e poco azzeccato ad un primo ascolto, mentre risentendola è difficile non canticchiarla e se ne capisce la collocazione nella tracklist; questo pezzo separa infatti una prima parte che ha confermato che i My Bloody Valentine sono sempre i My Bloody Valentine (anche 21 anni dopo) dagli ultimi tre brani, tre gioielli che forse sono gli indizi di una nuova fase per la band di Dublino. “New you” è messa lì per dire: se vogliamo possiamo essere pop e invece poi scegliamo di essere altro. Di molto diverso. Arriva infatti la fotonica “In another way”, brano iper ritmato e musicalmente ridondante, curato in modo maniacale sia dal punto di vista del suono, con chitarre che sembrano suonare accavallate su se stesse e creano invece una straordinaria armonia dissonante, sia dal punto di vista vocale, con il cantato che gioca sul suono, sulla melodia intrinseca alle parole stesse. Subito dopo tutto questo si viene poi investiti dal muro di suono ipnotico di “Nothing is”, un brano che si basa su un loop ripetuto in maniera ossessiva in attesa di un qualcosa, un’esplosione sonora, che invece non avviene mai: assolutamente geniale ed inatteso da una band come i MBV, che fa della costruzione sonora uno dei suoi punti di forza; questo pezzo è invece quanto di più destrutturato e destrutturante la mente di Shields potesse partorire. La chiusura è affidata a “Wonder 2”, in cui l’abilità di costruzione sonora di Shields viene unita ai germi di follia destrutturanti presenti nella precedente “Nothing is”; il tutto dà vita ad un qualcosa di mai sentito prima, qualcosa di scardinato in parte dalla forma canzone, un capitolo nuovo della storia dei My Bloody Valentine che, se perseguito, non si sa dove possa portare; di certo si tratta di un qualcosa di unico nel panorama rock mondiale.
Proprio questo trittico di pezzi finale mi spinge a dire che questo M B V sia un album di “stacco” molto più di quanto ai tempi non fu “Loveless”; in “M B V” i My Bloody Valentine omaggiano ciò che sono stati fino al 1991, quando hanno raggiunto le inarrivabili vette del suddetto “Loveless” e al contempo si aprono una nuova strada, di cui decidono di essere i pionieri, come fu per lo shoegaze (ora tanto di moda) più di venti anni fa. Bentornati.
(Alessio Gallorini)