Avete presente l’Ericofon? No, eh… Ebbene si tratta di un telefono prodotto dalla Ericsson negli anni ’50 con un design futuristico sarebbe andato forte durante il decennio successivo: plastica pressofusa super-curvata e dai colori accesi. È originale in particolare per via del suo corpo unico che comprende sia la cornetta che il selettore tant’è che per interrompere la linea è sufficiente poggiarlo in verticale su una qualsiasi superficie. Ora, per quanto questo apparecchio sia un classico del modernariato (tanto da esser anche finito nella collezione del MoMA), non credo che molti vorrebbero averne uno in casa. L’arredamento moderno predilige un gusto molto più razionale e minimalista: la ripartizione fra linee e curve è oggi molto più armonica rispetto a quella esuberante, tendente all’asimmetria, degli anni ’60. Mentre L’Ericofon è informe o, peggio, assomiglia a uno sturalavandini. Ha persino il selettore a disco: che chiunque ne ha mai provato uno ben sa che coi numeri con tanti zeri è una tortura utilizzarlo. Per quanto possiamo esser nostalgici dobbiamo ammettere che l’Ericofon è un prodotto superato sia tecnologicamente che esteticamente. Rientra in un immaginario che non ci appartiene più.
Ecco questo Dalla ruggine degli Alanjemaal è composto in grandissima parte di nostalgia. Non per un goffo telefono bensì per un goffo ma anche assai interessante luogo e tempo della nostra storia musicale. Parlo dell’underground italiano di inizio anni ’90, quello in cui il rock alternativo statunitense degli anni ’80 unito alle più nuove suggestioni “grunge”, ha cominciato a dar forma a band come Marlene Kuntz, C.S.I., Afterhours, Ritmo Tribale, ecc. Fra questi c’erano pure i semisconosciuti Rude Pravda da Monza che oggi, dopo aver prodotto due demotape non passati alla storia, si sono riformati come Alanjemaal (da pronunciarsi alla francese: “alansgemaàl”). Ebbene nell’economia di questa mia recensione schizoide i Rude Pravda sono l’Ericofon e gli Alanjemaal sono degli antiquari che ce lo vorrebbero rifilare. O meglio ci mostrano una fantastica e inossidabile secrétaire ma nell’affare ci dobbiamo prendere anche quel telefono.
In questo caso la sécretaire è una brillante reminiscenza del primo proto-post-rock matematico degli Slint (quelli di “Tweez”) perfettamente resuscitato nella iniziale “Oniromane”: sette minuti strumentali fatti di pieni e vuoti, cavalcate noise sonicyouthiane e riflessioni quasi prog, con tanto di chitarre fuzzose e tastiera psichedelica a dare al tutto la sensazione di – sentite bene, signore e signori – fluttuare nello spazio(!). Proprio così. E lo stesso fa “Memoria eidetica” con un turbinio in cui la tastiera dal timbro tipicamente anni ’60 è ancora più preminente mentre le chitarre passano dalla ruvido al laccato con fluidità. Mentre nella successiva “Le colpe degli altri” queste si infiammano come propulsori di uno shuttle che punta fiero verso l’infinito di un cielo limpidissimo, provocando un effetto corroborante e rinvigorente nell’ascoltatore. Peccato che poi si facciano fregare, chissà quanto consapevolmente, dalla nostalgia e tirano fuori orrori che dovevano rimanere negli anni ’90: nel caldo ricordo della loro giovinezza. Per cominciare, si saranno già notati i titoli inutilmente pretenziosi che rimandano a certe menate del Giovanni Lindo Ferretti salmodiante che già presagiva la futura folgorazione sulla via di Damasco.
Il vero problema è la voce: sbagliata su tutta la linea. Innanzitutto in un disco che la cui maggiore forza è situata nella perizia strumentale la voce è spesso un po’ inutile, tautologica diciamo nel suo voler enfatizzare passaggi sonori già potenti di loro, ma qui è in certi momenti addirittura controproducente specie quando, a causa di un missaggio non perfetto, copre la narrazione musicale. Inoltre questo canto disgraziato è tutt’altro che un piacere per le orecchie: flebile, smunto e sempre sul limite della stonatura. La cosa avrebbe senso se la produzione strumentale fosse volutamente dissonante e slabbrata, ma così non è. Infine, i testi si meritano un anatema sospirato mentre con le braccia formano una croce: orribili ermetismi tipici del nostro alt-rock anni ’90 che un motivo ci sarà se oggi non vengono più utilizzati da nessuno o quasi (Edda e Verdena hanno un permesso speciale). Un motivo che onestamente nemmeno voglio indagare tanto mi danno i brividi. Forse semplicemente sono ancora vivi ma nascosti nei testi inglesi della band che hanno fatto il First al British Institute. Non lo so, mi basta che le band giovani non me li facciano sentire esplicitamente.
Così, dunque, appare “Dalla ruggine”: una bella consolle da studio con sopra un telefono dal design assolutamente inappropriato. Ovvero “Dalla ruggine” è quel tipo di album che costringe ad analogie contorte e un po’ incoerenti gli ascoltatori benevolenti così da non fermarsi all’esteriorità, per non arrendersi alla semplificazione, per non bollarlo con una banalizzante bocciatura. È un album che probabilmente chi, per motivi anagrafici, si ritrova sulla stessa lunghezza d’onda degli Alanjemaal – chi prova il loro stesso senso di nostalgia – sarà in grado di apprezzare senza riserve. Mentre molti della mia generazione lo sentiranno in larga parte distante, superato, vecchio.
Quelli che, invece, hanno un buon orecchio, indipendentemente dall’età, sapranno andare oltre l’intimorente visione d’insieme e godere di quel che c’è di buono in questo disco, quello che è più in grado di resistere all’usura del tempo, alla ruggine appunto.
(Francesco De Paoli)