L’onda lunga strumentale iniziata nel 2013 si riversa potente nel nuovo anno con l’album di debutto del trio livornese dei Platonick Dive. “Meet me in the forest” è il brano d’apertura ed è proprio lì che li incontriamo: la loro musica svetta in altezza come gli alberi delle foreste del Nord alla ricerca del sole. Algida e rarefatta, si cristallizza all’ascolto come un fiocco di neve sui vetri, ma poi scioglie e si scioglie, accennando melodie che però penetrano come uno stiletto di ghiaccio. Ma è “Youth”, la seconda traccia, ad essere davvero ghiaccio bollente, e finisce in un incendio. Sulla neve.
Anche facendosi scorrere addosso i sei minuti e venti di “Wall gazing”, uno dei pezzi maestri, dove i violini, le chitarre e la batteria tracciano suggestioni ipnotiche quasi shoegaze, non verrà meno la nordica sensazione di spazi ampi, bianchi, abbaglianti e pulitissimi di gelo. È post-rock, e i Mogwai sono l’obbligatoria citazione, ma ci siamo stancati di trovare riferimenti, e vorremmo che non fossero sempre gli stessi, ma tant’è. Piuttosto, concentriamoci sul trio livornese, che è riuscito a debuttare con un album di ottima fattura con campionamenti azzeccatissimi (anche vocali come in “Soundproof cabinet”) e lievi scosse elettroniche che, come in “Lovely violated innocence”, donano malinconia: forse questo è il pezzo meno algido dell’album, quello che commuove di più. Il resto rende tesi all’ascolto, tesi come le corde e gli archi che i Platonick Dive dilatano all’infinito. Ed è lì che volge tutto l’album, verso il cerchio perfetto dell’infinito, ed è una gran bella sensazione di ordine e disciplina. Chiudono due pezzi decisamente più elettronici come “The time to turn off you mind” parte 1 e 2. Ma la seconda parte esplode in una cascata di suoni che ci riporta al post-rock più avvolgente, e ci si accorge che i minuti son volati: viene voglia di ricominciare da capo a tuffarsi nel ritratto terapeutico dei Platonick Dive.
(David Drago)