Goliarda Sapienza, classe 1924, è stata un’attrice teatrale, con alcune apparizioni in film come “Senso” di Visconti, ma fu soprattutto una scrittrice di grande e indiscusso talento, una donna che visse sul confine finendo in carcere e succhiando da questa vita vissuta il nettare dolce e amaro delle sue opere, anche se le sue qualità solo ora trovano estimatori capaci di renderle la fama che meritava già dagli anni ‘60. Il fatto che il suo romanzo “L’arte della Gioia” sia stato pubblicato postumo la dice lunga sull’ottusità che spesso, caparbiamente, chiude le porte ad artisti che vanno stoicamente “oltre le regole, le convenzioni, le convinzioni di seconda mano a cui le persone “normali” si piegano o adattano”. Io l’ho scoperta, come tanti, da poco, ed è stata una vera sorpresa per la forza che emana la sua parola, per le situazioni originali e i comportamenti dei protagonisti fuori dall’ipocrisia del quotidiano. E questo spero spinga altri ad avvicinare la bella scrittura di Goliarda. Cosa questo c’entri con Roberta Gulisano è presto detto, e bene, dalla stessa cantautrice:
“Nell’aprile del 2011 io e due amiche (una percussionista e un’attrice) mettemmo su una mise en espace sul tema della notte, dal titolo Armacanta, in cui univamo testi della letteratura siciliana a brani di nostra composizione. Tra quei testi c’era il primo racconto di Destino Coatto, di Goliarda Sapienza, un testo onirico, folle, disarmante, che trattava la Morte in modo desueto, quasi brillante. Così è per tutti i racconti raccolti in “Destino Coatto”, che lessi in realtà molti mesi dopo, dopo aver letto Il Filo di Mezzogiorno, un racconto dai tratti forti, in cui la Sapienza parla della sua lunga depressione, della sua psicanalisi, della sua “morte” alla normalità. Il modo in cui Goliarda tratta il tema della morte e della pazzia, e la pazzia come escamotage per continuare a vivere a modo proprio in una società che carcera nella solitudine coloro che cercano di ottenere la vera libertà, mi ha colpito, mi ha aperto dentro una finestra, mi dato un nuovo punto da cui guardare; la trovo una visione avanzata della Follia pirandelliana, la follia che rende giustizia alla verità che è la morte dell’ipocrisia, valore assoluto su cui si fonda il perbenismo borghese. Goliarda è vera e senza pudore, che piaccia o no. E la sua stessa vita è un destino coatto, portato alle estreme conseguenze. Destino Coatto è un’insieme di storie assurde che trasudano cinismo, sono quasi crudeli, lasciano spiazzati; se fossero dei disegni, sarebbero degli schizzi di Tim Burton. A lavoro finito, quest’album mi è sembrato somigliargli molto, e la scelta del titolo “Destini Coatti”, mi è sembrato racchiudesse bene il significato intrinseco del lavoro nel suo complesso, nel suo essere cornice di eventi cinici e teneri allo stesso tempo, narrati da una musica che a volte sembra un po’ da cartone animato”. Chiaro come un raggio di sole. Tra le sbarre di una cella. E continua la brava Roberta: “È stata una specie di illuminazione… La via più bella, non è forse quella che chi ci ama traccia dentro di noi? Quella via per cui ogni cosa ha senso, e non c’è bisogno di morire per fuggire dalla bruttezza, dalla solitudine, dalla ignoranza? e la nostra Fortuna non è forse già segnata nel nostro percorso di amore avuto o mai dato, o lasciato, o mai amato? Su questo complesso materiale umano, ci abbiamo costruito su un disco. I primi approcci sono stati molto semplici, abbiamo fatto una prima stesura, che aveva delle carenze, delle idee poco chiare sul vestito da dare a tutte queste donne… In Marzo ho messo su la band in maniera stabile, ricominciando a collaborare con alcuni miei colleghi di conservatorio, con cui c’era sempre stata una bella sintonia. Abbiamo rielaborato alcune cose, abbiamo assestato un sound acustico, che è ciò che più mi appartiene, senza eccessive pretese. E …che dirti!? Adesso spero che la musica arrivi a chi l’ascolta”.
Roberta Gulisano non è una scoperta improvvisa, invece una duttile e poliedrica cantautrice siciliana, alla prima opera autoprodotta, presenza assidua e testarda in tutte le manifestazioni di qualità sulla canzone d’autore degli ultimi anni, sempre e comunque in finale e nei posti d’onore, vincendo con i Triskele (dalla figura a tre gambe che è anche simbolo della Sicilia) il premio Parodi 2010, arrivando seconda al premio Bianca D’Aponte e lasciando ovunque tracce di questo lavoro che racchiude brani nati dal 2009 al 2011. Tutti i racconti sono al femminile e, quasi sempre, drammatici e mortali, frutto di attenta osservazione degli eventi di quest’Italia mai stata tanto ottusa nei confronti dei sentimenti e delle libertà delle donne, (in aumento l’inspiegabile catena di omicidi “familiari”, perpetrati dai mariti compagni padroni), incapace di comprendere pulsioni e motivazioni. Ancora Roberta che “sente” particolarmente il tema: “Nessuno va mai in fondo a queste morti: si fanno i processi, i talk show, i giornali parlano, ma nessuno si chiede mai perché si muore o si sceglie di morire”. È dolce cantilena “Adele che cade” e subisce violenza dal marito e reagisce, ha dinamiche klezmer “Freak & Chic”, cabaret nel pubblico suicidio di “C.M.”, silenzi in minuetto, un suicidio che è unica fuga, struggente l’anoressia di “100 grammi”, valzer di autocoscienza e desideri, chiude la bella e coerente cover di Sergio Endrigo, “Via Broletto 34”. È arguta la scelta di accompagnare queste storie profonde, ben scritte, con musiche a incastro e contrasto, spesso allegre, da circo, da banda, cantilene folk e popolari filastrocche in salsa jazz, in un potpourri di schizofrenica, coerente e piacevole creatività, cinica e partecipe descrizione delle profonde e spesso inaccessibili voragini dell’irrazionale umano. È questo il brodo perfetto per la verve teatrale dell’energica fanciulla, un incontro inquieto ed efficace tra impegno che non è annoiata saccenteria, distacco che non è cinico elenco, partecipazione per immagini che non è pericoloso coinvolgimento, per quadri di folle esistenza che diventano rapimento del cuore.
L’album è il viaggio all’inferno di Beatrice narrato con la leggerezza dell’intelligenza arguta, è un concept che forse aiuta la metà maschia del mondo a comprendere la meravigliosa e complessa compagna e a restituirle la poesia che merita. La salvezza è tutta lì, nel riconoscimento, o nel sogno di quella vocina che chiude il disco: “Brilla brilla seconda stella, mostrami la via più bella”. Èuna filastrocca ripresa per caso col cellulare, mentre Dharma, la bimba di una sua amica, cantava le canzoncine che sua mamma le canta prima di dormire, prima di chiudere gli occhi e sognare.
(Alberto Marchetti)