Reduce dallo splendido “Alone”, che lo avvicinava ad atmosfere Drakeiane e lo confermava come uno dei cantautori più ispirati della scena italiana, Paolo Saporiti stavolta sorprende, costruendo un disco diverso, in cui mette in gioco il suo background musicale lasciando che il suo grande amico Xabier Iriondo, chitarrista degli Afterhours, lo contamini e lo renda più vivido e sperimentale.
Quello che ne viene fuori è L’ultimo ricatto, un disco che sublima le qualità di entrambi i musicisti, regalando pezzi come l’introduttiva “Deep down the water”, in cui è ancora il fantasma di Nick Drake a materializzarsi, confermando una volta di più le qualità vocali di Saporiti, capace di esplorare più registri all’interno dello stesso pezzo, con un’essenzialità strumentale e, allo stesso tempo, un pathos emotivo che pochi possono vantare in Italia; ci sono però anche perle di altro genere in “L’ultimo ricatto”, come il folk acustico di “War (need to be scared)”, in cui è la mano di Iriondo negli arrangiamenti a donare al brano una forza ed un’originalità straordinaria, facendo sì che si elevi quasi a piccola piece teatrale ed esaltando al contempo il cantato di Saporiti, che a tratti ricorda il Thom Yorke di brani come “Weird fishes” o l’Antony Hegarty degli esordi. In “I’ll fall asleep” è ancora l’autore di Irrintzi a disegnare il brano con un uso strepitoso dei sintetizzatori, che contrasta abilmente con la chitarra acustica ed il cantato malinconico in primo piano. A mio avviso questo è il miglior brano del disco, sicuramente il più rappresentativo. La successiva “Sweet liberty” gioca ancora con gli effetti sonori, che fanno da “tappeto” per il cantato di Saporiti, senza tuttavia risultare invadenti, anzi conferendo al pezzo una chiave di lettura duplice, più inquieta, che va quasi ad essere una sottotraccia rispetto, ancora una volta, alla dolcezza della chitarra acustica in primo piano. “We’re the fuel” è quasi una filastrocca, giocata sull’espressività vocale di Saporiti e su sonorità rese originalissime e stranianti dall’uso dei fiati e delle percussioni. Con “Toys” si vira su sonorità più cupe, con i synth che ancora una volta, pur in modo minimale, regalano stralci di inquietudine ad un brano che altrimenti scorrerebbe via come un’ottima ballad acustica. “Stolen fire” è un altro piccolo gioiello: cantato distorto, che comunque non perde di espressività: un Elliott Smith dissonante e allucinato che si fa coinvolgere in una cavalcata western da Johnny Cash. Ecco poi il momento della ballad (in cui non mancano i synth di Iriondo ovviamente a “disturbare” il tutto) con “Never look back”. “The time is gone” è caratterizzata dalle sonorità di un sax, elemento nuovo rispetto al resto del disco, che introduce un nuovo livello di intensità quando forse ormai si pensava di aver sentito tutto quello che “L’ultimo ricatto” potesse offrire. Notevole. La successiva “In the mud” riesce a muoversi sul filo sottile tra dolcezza, levità sonora e sperimentazione quasi psichedelica; è un brano da ascoltare chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare in un sogno surreale eppure possibile. “Sad love/bad love” è caratterizzata dalle corde di un banjo, che sostengono una voce ancora una volta espressiva e multiforme, una voce unica, vera forza di Paolo Saporiti.
La chiusura è affidata a “F.R.I.P.P.”, acronimo che va (non casualmente) a riprendere il cognome di uno dei membri fondatori dei King Crimson, band certo amata sia da Saporiti che da Iriondo e che in parte ha certo influenzato questo lavoro, un lavoro straordinario, che dimostra come le collaborazioni possano non solo funzionare, ma a volte siano necessarie per rendere un disco unico, coniugando generi e sonorità impensabili.
(Alessio Gallorini)