Elsa Martin è friulana, con amore, e della sua terra di confine e di partenze custodisce, con cura, umori, sentimenti, antiche narrazioni, voglie, paure, e le nuove tensioni che sono incontro e scoperta, con la capacità, rara e preziosa, di saper trasformare tutti questi segni contemporanei e di un tempo, in nuovi messaggi e significati.
Con la collaborazione di Marco Bianchi e di Stefano Montello, con i consigli del sapiente Lino Straulino, Elsa pone la sua grande duttilità vocale al servizio di un album che è riscoperta e invenzione, sguardo moderno dentro il grande libro della vita legata allo scorrere lento delle stagioni, con il rispetto delle radici e della storia locale. La cura maniacale dei brani, la coraggiosa riproposta di tradizionali nella loro forma più rurale, più antica, e la loro altrettanto coraggiosa e sorprendente rivisitazione; gli arrangiamenti ricercati e mai ridondanti, che meritano un plauso; le parole nuove che hanno preso lezione dai luoghi e dal vissuto, e che legano dolcemente con le antiche storie, il rispetto nel canto complesso e pulito e di forte capacità evocativa, fanno di quest’album un piccolo capolavoro si bellezza.
Tredici sono i brani proposti in perfetto equilibrio, sei tradizionali e sei di nuova scrittura, più una ghost track. A “Neule Scure” l’apertura, brano scritto dal duo Martin/Montello, nuovo che sembra antico, con la lettura dell’alfabeto arcaico nascosto nelle nubi di passaggio, dalle quali si leggevano un tempo storie, fantasie e ninne nanne, e previsioni ormai criptiche, nuvole di sogno che nessuno guarda più, nessuno è più capace di decifrare: “Armonia del mondo che ti racconta, ti dice / uno è la luna / due la fortuna / tre è la brama / quattro l’amore che chiama…”
Bello il confronto diretto tra le due versioni di “Al vaive lu soreli” prima nella forma tradizionale a cappella del trio femminile di Givigliana, così legata, nell’incedere, al lavoro, come nelle opere di recupero certosino di Giovanna Marini; poi quella world di Elsa, con il violino a cesellare la dinamica e l’incedere, ipnotico e ricco di pathos. “Come un aquilone” passa a atmosfere più aperte, senza mai abbandonare la bella musicalità della composizione, e segue con la voce le evoluzioni imprevedibili di quel frammento di seta. Dopo il canto a cappella di “E io cjanti” entra il tamburo di “Gjoldin gjoldin”, un tradizionale che si evolve con piacevole brio, col clarinetto di Francesco Socal in bella evidenza. “Calda sera” parte eterea, a ricordare un tempo che non passa, ci appartiene, resta radicato nella memoria anche in giorni rapidi e slegati come questi: “Ieri non finisce, non passa se appassisce, / non crede nell’autunno, / scorre nella storia, / si bagna di memoria / favola e arcolaio / le frasi del rosario…” Prima “O staimi atenz”, un bel tradizionale natalizio rivisitato magnificamente con sonorità world di grande impatto; poi “Neve” brano di classe senza sbavature di sorta, precedono “Griot” terzo brano del trio femminile. “Dentrefur” è un inno alla musica, sempre presente nella vita di un uomo, ne accompagna ogni quadro di vita, ogni lacrima, ogni sorriso, ogni pensiero: “musica che ferma i giorni / che si alza in piedi / domanda a le che sa di me / musica sempre sul margine / che fa la punta al cuore/e sta dentro e fuori”. “La lus”, è un’elegia all’alba, un’osservazione delicata e sognante, piena di attese per il nuovo giorno, con il coro dei bambini di Betania di Tolmezzo. Chiude la ninna nanna di Bruno Lauzi, un omaggio a un grande mai abbastanza ricordato.
Tutti i brani sopra la media, con preferenze proprio per quelli in dialetto friulano, davvero incantevoli. E mi accorgo che questi brani sono un viaggio dentro il valore del tempo, attenti alle ore del lavoro e del riposo, a dare un senso al trascorrere dei giorni, a dargli sostanza, forza, sentimento e nuova ragione. Chapeau.
(Alberto Marchetti)