Scrivere qualcosa sui Mission of Burma senza usare il termine “seminale” è un’operazione praticamente impossibile. Assistere a un concerto della post-punk band di Boston formatasi nell’ormai lontano 1978, dà la sensazione di entrare in un vortice temporale che racchiude quanto di meglio la musica indipendente ha saputo produrre negli ultimi 30 anni. Il tutto in un’invernale domenica sera bolognese, in un Locomotiv club riempito a metà.
Ad ascoltare i brani che si susseguono nel live set si finisce con l’identificarsi con il Paul, protagonista del celebre film di Scorsese “Fuori Orario”, che si ritrova scaraventato per tutta la notte in strani appartamenti frequentati da inquietanti personaggi della Soho Newyorkese, luoghi tanto vicini nello spazio quanto, almeno nelle apparenze, così distanti nel tempo. Roger Miller (voce e chitarra), Clint Conley (basso e voce), Peter Prescott (batteria e voce) accompagnati da Bob Weston (Shellac) dietro il mixer, iniziano il live con “Donna Sumeria”, che suona come una dichiarazione d’intenti di chi, nonostante l’età non più verdissima, non ha nessuna voglia di smettere ne tantomeno dà segni di aver dimenticato come si faccia il rock’n’roll. Hardcore, no-wave e pop, tutto centrifugato con distorsioni rocciose, derive noise e potenti giri di basso. Si susseguono canzoni tratte dal nuovo disco Unsound, uscito quest’anno per Fire Records e canzoni degli album pre-reunion, da cui si coglie distintamente l’enorme influenza che il gruppo ha esercitato su un certo tipo di musica che sarebbe stata. Ci sono le destrutturazioni e le dissonanze che saranno tanto care ai Sonic Youth qualche anno dopo, intervallate da atmosfere più prettamente new-wave (“Trem-two”). Poco dopo si viene catapultati in altre dimensioni, definite da linee vocali da cui gruppi come R.E.M. o Pixies attingeranno a piene mani. Tra schegge punk-hardcore come “This is not a photograph”, si incastrano riff proto-grunge e quel sapiente mix tra rumore e melodia ripreso da band come Dinosaur Jr. In mezzo a questo caleidoscopio impazzito i quattro sembrano divertirsi come ragazzini e si concedono anche scene umoristiche, come il cameo alla voce di Weston in “1,2,3 party”.
Il concerto si chiude con “That’s when I reach for my revolver”, forse l’unico brano della band ad aver varcato i confini dell’underground, grazie anche alle numerose versioni (Moby e Graham Coxon su tutti) che ne sono state fatte.
Vedere e ascoltare dei templi viventi della musica alternativa non è cosa da tutti i giorni, e in questa loro seconda giovinezza dimostrano di saperci fare ancora egregiamente. La musica ringrazia.
(Matteo Guerriero)