Se a qualcuno venisse in mente di tirare giù una raccolta Nuggets ragionata per gli anni dieci, la scelta di uno (o più) brani a firma Ty Segall creerebbe un imbarazzo non indifferente. Vincerebbe, probabilmente, “Goodbye Bread” per questioni di consenso legate al sacro claim per cui the public gets what the public wants (e anche perché non ci sono più le compilation di una volta e i treni non arrivano più in orario). Ma anche a ipotizzare che la costruzione del set dei pronipoti di psichedelia/garage/beat e loro eventuali derivazioni avvenisse con un intento di approfondimento, e non solo informativo, il problema rimarrebbe.
È il gioco dell’autunno: trova un album di Ty Segall che sia brutto. Non ad un livello qualitativamente inferiore, proprio oggettivamente brutto, mal costruito, noioso. Se avete un minimo di onestà intellettuale (se dentro di voi vive un piccolo quarantenne garagista è troppo facile) bè, avete perso a prescindere.
Il trittico Hair – Twins – Slaughterhouse, da ascoltarsi preferibilmente in questa successione – e non, quindi, in ordine di uscita – ne è una evidente conferma, necessaria per comprendere l’azione dirompente che muove da un pop fatto in modo diverso, ma non per questo altro dal pop o da quello che Ty Segall possa avere suonato finora, anzi: state osservando l’essenza, e con tutta probabilità vi sentite (eufemisticamente) delusi, perché “Slaughterhouse” era una botta nelle reni, irruenza al fulmicotone, e “Twins” potrebbe sembrarvi “meno”. In realtà siete solo influenzati dalla collocazione temporale: se “Twins” fosse uscito prima, nessuno si sarebbe sentito in dovere di reagire intellettualmente ridimensionando il proprio pensiero nel confronto con Slaughterhouse o peggio, tentandone il trascinamento nel vortice dell’interessante-ma-insipido, al pari di altre uscite recenti (vedi Tame Impala).
Anche perché la verità è che, da un bel po’ di tempo a questa parte, la musica è ferma, e dovete farvene una ragione. There is no tomorrow, Ty lo dice chiaramente: le band non sanno dove sbattere la testa, l’indie rock (quello attuale, non quello scaruffiano) è il più colossale fallimento che si sia mai visto, i Radiohead fanno lo stesso disco da Kid A, la critica più sprezzante taccia tutti di revivalismo spinto e si copre gli occhi di fronte alla perfetta riuscita di Lonerism senza pensare che questi ragazzini, in realtà, hanno capito tutto. Se non sai dove stai andando l’unica cosa sensata da fare è guardare indietro, imparare e personalizzare. Tirare fuori degli instant classics, e l’unico motivo per cui Ty Segall viene toccato solo marginalmente da questo discorso è che lui la lezione l’ha imparata meglio di tutti, travolgendo con la sua personale affezione (terribile trasposizione per il concetto di addiction) per il garage rock sia gli adoratori dell’originale, i puristi, che i giovincelli.
La premessa è estremamente semplice: non c’è niente di particolarmente originale, ma l’originalità discende dall’interpretazione, dalla manipolazione di suoni, elementi ed attitudini in una maniera tale da essere attribuibile, adesso, solo a quell’artista e/o quella band. E in questo Twins sfiora la perfezione, diventando la migliore sintesi, il punto stazionario in cui gli accenni compulsivi di “Hair” si trasformano nel rigurgito sludgy di “Slaughterhouse”, l’equilibrio tra le improvvisazioni in coda a “Scissor People” e gli ululati di “Wave Goodbye”.
Per quanto sia d’effetto far leva sull’esplosività creativa del personaggio, parlarne come l’ennesimo colpo di genio a briglia sciolte, senza logica né connessione, è assolutamente ingiusto. “Twins” è un attimo. Veloce, semplice, non c’è un pezzo che non funzioni; si muove all’interno della tradizione 70s con un’agilità impressionante, respira la California come crocevia di generi ed ispirazioni e, un attimo dopo, si sposta verso sonorità detroitiane che spingono l’ascoltatore a leggere “Love Fuzz” come “No Fun”. Risale, lungo la costa ovest fino a Seattle con “Handglams” e poi piomba giù nelle swamps di New Orleans. È schizofrenico e sa di esserlo (there’s a problem in my brain in “You’re The Doctor”) come il video lynchiano di “The Hill”; si insinua a fondo “Inside Your Heart”.
È un capolavoro. E l’unica ragione per cui non se ne può parlare come il capolavoro in assoluto è che non si può immaginare cosa Ty Segall sarà capace di tirare fuori in futuro. Anche perché, chi se la sentirebbe di fermarlo?
(Marianna Sposato)
You’re the Doctor: HYPERLINK “http://www.youtube.com/watch?v=Zm4ge8iOcoY”