Dopo quattro album incisi come trio i Menomena, a seguito dell’abbandono di Brent Knopf -dedito ormai a tempo pieno al suo progetto Ramona Falls– si presentano al loro pubblico come un duo, composto dai superstiti Danny Sein e Justin Harris. Uscito per la Barsuk lo scorso 18 settembre, Moms è un quadro coloratissimo e visionario sulla figura materna, come musa ispiratrice: quella di Harris che ha cresciuto suo figlio praticamente da sola, e quella di Seim che l’ha lasciato troppo presto, essendo morta nel 1994. Il suono dei Menomena è sempre stato dicotomico, una danza inquieta tra l’esuberanza del regime e l’oscurità dei temi lirici. E oggi le cose non sono cambiate, per fortuna oserei dire: “Moms” attira ancora con la stessa verve avvelenata di Mines (2010) e Friend and Foe (2007), in una carnevale di suoni pieni di conflitti e disfunzioni. I Menomena continuano a esplorare le loro possibilità di espansione, figli di una certa psichedelia fra Flaming Lips e i Mercury Rev di Deserter’s Songs; Justin Harris e Danny Seim non ci pensano due volte a sbattere e tritare tamburi digitalizzati con corna, flauti, pianoforte, synth taglienti e chitarre stordite.
Il disco si apre con ”Plumage”, dalla lenta costruzione un po’ sing-along con i suoi sax lucidi e pulsanti ed echi penetranti alla Blur, proseguendo con la genuina ”Capsule”, distesa su enormi tamburi tropicali (che ricordano tanto i gallesi Super Furry Animals), e bassi giocosi. Burrascose trombe si uniscono a melodie stratificate in ”Pique” dal songwriting euforico, mentre i synth si fanno imbestialiti in ‘‘Baton”. Ballata amarissima per ”Heavy is a heavy does”, un lamento buio per un padre assente in mezzo a una chitarra sgangherata e squilli di trombe. Aggressivamente funky è ”Giftshoppe”, una power ballad cupa sovrastata da percussioni sincopate che guidano fino alla trama intricata di ‘‘Tantalus”. Le voci rotte ed esauste di ‘‘One Horse” concludono, in mezzo ad archi drammatici, una ballata struggente e trionfale che da sola vale tutto l’album. Forse è semplice per un ascoltatore casuale perdersi in mezzo al cuore fratturato dell’album, distratto dalla sovrabbondanza di strumenti: percussioni ribelli, synth festosi, rintocchi distorti, cambiamenti strutturali e ritmi sempre diversi. Con la musica dei Menomena non si balla, piuttosto ci si contorce in modo un po’ irregolare, abbandonandoci a un surround di movimenti e colori che si sposta troppo velocemente per prendere i bordi logori e le tonalità dell’oscuro: c’è più fantasia, energia e pura tensione musicale in questi cinquanta minuti che nella maggior parte degli album usciti quest’anno.
“Moms” è un disco convincente, suona ruvido e sensuale; le diverse storie di Sein e Harris finiscono per sfociare in una celebrazione quasi catartica, che ritroviamo soprattutto nei testi e nell’interpretazione vocale, come in un suono che, seppur mantenendo l’estrosità giocosa dei capitoli precedenti, qui risulta più aggressivo, quasi drammatico, struggente e magnifico. Potremo pensare a “Moms” come a un album indie rock con un twist maturo; l’uso occasionale di ottoni, legni ed effetti sonori elettronici mantiene la musica fresca, eccitante ed euforica; i Menomena sono in grado di garantire un suono unico, e in questo album trasportano l’ascoltatore in un viaggio esilarante e surreale guidato da un caleidoscopio coinvolgente di note. A metà fra Deus, Blur e Tv On The Radio, i Menomena deliziano ancora una volta con un insieme di canzoni ispirate dal retrogusto amarognolo. C’è l’eclettismo stesso delle influenze musicali, le strutture non convenzionali, l’esperimento incessante, la messa a fuoco su una famiglia tormentata e divisa. Perché “Moms” è proprio questo: un disco sulla famiglia e le sue mancanze, sugli errori di padri e madri (Heavy are the branches hanging from my fucked up family tree / And heavy was my father, the stoic man of pride and privacy), con la voglia di ricucire quello strappo sui jeans dell’adolescenza. Conflitti irrisolti? Crisi familiari? Per una volta non andate dallo psicoterapeuta, ascoltate questo disco.
(Beatrice Pagni)