Il progetto pangeografico del californiano Luis Velasquez – ora giunto ad una stabilità di band The Soft Moon – è il tormento dell’oscuro, il condensato di quelle panacee torbide, orrorifiche e malate che il profondo di una certa dark-wave mutuata da ascolti e ancora ascolti apneici di Sister of Mercy, Bauhaus per quanto riguarda le tonalità del nero e di Ministry e Suicide per il versante neuronico-ossessivo, riversa copiosamente in questo secondo work Zeros, la seconda prova lattiginosa e artistica di una soluzione che fa tremare per la sua intransigente solitudine.
Droni, ossessioni, nevrotiche fluttuazioni seriali e ingranaggi eighties, sono il bagaglio completo di un escursus tenebroso e livido, che vede luce solamente se esposto al buio, regno di sintetizzatori freddi e caldi brividi impressionistici Cronemberghiani in cui l’artista manipola a volontà tutto quello che passa nella sua intimità devastante; tracce e propensioni a sbalordire gli ascolti che convincono a metà, cose sonore e claustrofobiche già digerite a iosa, ma che comunque si fanno notare se non altro per il coraggio di uscire allo scoperto come i beats di “Crush”, la robotica bastonata “Machines”, i Sigue-Sigue Sputnik che emergono dalle pulsioni di “Remembering the future” o la lontana ancestralità che circuita tra le frenesie fisse di “Want”, in poche parole un disco di buone immagini ma che arriva con anni di ritardo, anche rispetto di certa cinematografia aliena di riferimento.
Potrebbe essere uno dei vostri incubi migliori oppure il peggio degli ascolti da svegli, fate voi, per quanto ci riguarda accendiamo la luce per farci un buon caffè dopo tanto Shakespeareano “…molto rumore per nulla…”.
(Max Sannella)