“Sedici modi di dire verde” sta agli antipodi delle dieci sfumature di rosso e grigio. Che c’entra? C’entra parecchio. Perchè dopo l’ubriacatura dei prodotti da industria del consumo culturale arriva un brano come quello che Fabi ha incluso nel suo nuovo album Ecco a ricordarci che “un uomo sa sedici modi di dire verde” e che siamo molto più ricchi linguisticamente e culturalmente di quello che spesso dimostriamo. Che essere bianco non significa essere candido e che “tutti camminano sempre ma poi per dove, tanto un albero è come un ombrello, se piove”. La strada di Niccolò Fabi è questa, ed è commovente perchè chiarisce, ovviamente in musica, come la semplicità sia sguardo limpido, profondo e in fondo benevolo sulle cose, anche le peggiori: ed è una questione di sopravvivenza.
Giunto al suo settimo album, a tre anni dal precedente, Niccolò Fabi ci apre un paesaggio di note in cui si respira aria di benefico dubbio e in cui le poche certezze non si sposano con l’arroganza e nemmeno con la rabbia, ma con tutta la possibile armonia che ci è dato cercare: “a volte basta vedere un angelo di schiena e un traghetto che è in partenza per un’isola siciliana” (in “Lontano da me”). E non è necessario essere dei geni per avere “Una buona idea”: quel che è difficile è esserne padri invece che orfani, perchè le buone idee non vengono supportate e annegano spesso nel caos. Eppure questa è la buona idea di cui Niccolò Fabi è padre: nessuno come lui elimina le differenze in favore di un’armonia e un equilibrio che tiene lontane tutte le discussioni più sterili. Prendiamo la musica: indie e mainstream per Fabi non hanno più senso, e c’è un brano bellissimo, “Indipendente”, che mette in guardia contro la dipendenza dall’idea di essere indipendente, che diventa un’altra prigione (per i musicisti, ma anche per i fidanzati, i figli, i politici).
Niccolò Fabi ha una carriera di tutto rispetto e sempre cresciuta in profondità. Probabilmente fa la musica che gli pare armonizzandosi con il contesto, ma qui si può parlare di un disco che chi se ne frega se è indie o mainstream, e di certo bisognerebbe lo capissero le major che investono su cloni e talenti da bruciare, ma anche le indie-snob. Tutti prigionieri di colore solo, di un errato concetto duale delle cose. L’album di Niccolò Fabi invece è un prisma di luce. “Non sarà mica l’ego l’unico nemico vero di tutto l’universo?” si chiede Fabi in “Io”. E uno ascolta i suoi pezzi e, ebbene sì, si sente sollevato e colto sul vivo al tempo stesso.
Poi c’è il dolore, e la sua elaborazione che è la sola salvezza: ne è intriso questo album, che ha anche il colore celeste dell’accettazione. Per questo vi si respira un’aria tanto leggera. Ed “Elementare”, per prendere ad esempio un altro splendido brano dell’album, sottolinea tutto quello che se rimesso armonicamente insieme costruisce la macchina quasi perfetta dell’esistenza, come gli elementi della tavola chimica. Una mano leggera che sfiora un viso fa capire all’improvviso quanto tutto sia elementare. Anche musicalmente. La bellezza di questo album è come quella di una donna senza trucco, o con le sue belle rughe. Come quella di un uomo con la sua pancetta, e gli occhi profondi. Come quella di un ragazzo ancora pieno di capelli ma brizzolato di riccioli.
L’album vede molte collaborazioni di grande rilievo, e si ritorna al concetto degli elementi che si legano: gli importanti contributi di Roy Paci, Roberto Angelini, Pier Cortese, Andrea Di Cesare, Gabriele Lazzarotti, Daniele “Mr Coffee” Rossi, Riccardo Parravicini e Fabio Rondanini sono indispensabili alla riuscita di un album che, in perfetto equilibro tra rock e cantautorato, tra musica e poesia, si chiude con doppia meraviglia: lo splendido e breve brano strumentale dall’azzecato titolo “Indie” (a ribadire la semplicità del concetto), e la title track dell’album, “Ecco”, che moltiplica i brividi e dona muscoli alla commozione, con una coda degna del miglior rock internazionale, che si innalza come onda rabbiosa e ricade lieve nella nuova calma.
(David Drago)