È difficile abituarsi a dire Umberto Maria Giardini, non solo perchè Moltheni ci è rimasto nel cuore, ma perchè ne è rimasto tanto anche nel disco che segna il nuovo corso del cantautore emiliano (d’adozione): La Dieta dell’Imperatrice ne è intriso, lo si riconosce ovviamente non solo dalla voce, o meglio dall’uso che ne fa, ma anche dai testi, dalle melodie, dagli eleganti arpeggi, dagli arrangiamenti. Insomma, è un disco di Motltheni che adesso si chiama col suo vero nome. Del resto, lo stesso musicista ha chiarito che si tratta di una rinascita umana più che artistica, una nuova pelle che gli consente di staccarsi da un’eredità diventata forse pesante, e ricominciare da capo senza alcun condizionamento, libero dalle eventuali zavorre che quel nome evidentemente comportava. È uno sfrondare le inutilità promozionali legate a un marchio, per tornare a un’essenzialità e a una semplicità che Umberto Giardini ha sempre esaltato e cercato. È una dieta, insomma, come da titolo, laddove ‘dieta’, dal greco, significa “modo di vivere”, coerente.
E poi, che la rinascita sia umana e non artistica, non può che farci contenti. Chi si aspettava da Giardini un deciso cambio di rotta (anche influenzato dall’altro suo progetto Pineda) sarà forse rimasto deluso, ma chi temeva uccidesse davvero l’esperienza musicale targata Moltheni avrà tirato un sospiro di sollievo: “La dieta dell’Imperatrice” è un disco che anzi aggiunge alla carriera di Umberto Maria Giardini/Moltheni un ulteriore tassello, e sale verso l’alto. C’è il fascino intatto dei testi inusuali e visionari, c’è l’orgoglio di una ragionata emotività nel raccontare se stessi, c’e l’amore per quella poesia naturale in cui ci si guarda spogliati da ogni orpello che non sia cultura: ascoltando questo disco “greco” ci ricordiamo che la musica e la bellezza vanno insieme come Apollo e le sue Muse, ed è importante più che mai quando, guardandosi e ascoltandosi attorno, a volte sembra che una delle due abbia abdicato.
Il brano strumentale che apre l’album è intitolato proprio a “L’Imperatrice”, ed è una di quelle rarefazioni liriche, anche se prive di liriche, a cui già Moltheni ci aveva abituato. Più denso di rock l’altro brano strumentale, “Il desiderio preso per la coda”, che contiene tracce del Pineda ormai forse già archiviato. Il resto si snoda in dieci meraviglie malinconiche di arpeggi e potenti di percussioni, che rafforzano l’idea di bellezza, che, per quanto talvolta illusione, è comunque salvifica e sta lì il suo valore. Il pezzo più bello? Difficile dire. Forse “Genesi e mail”, intensa di voce e violini. Ma “Il trionfo dei tuoi occhi” è una canzone d’amore assoluto ampia come un’apertura alare: “duemilaeundici, e abbracciato a te, eravamo noi, o non eravamo” . E poi, tra gli episodi migliori, ci sono la lenta e ammaliante “Discographia”, l’onirica “Saga”, e a chiusura dell’album “L’ultimo venerdì dell’umanità” nove minuti di profezia apocalittica (“Magma, scendi, bruciaci”) ma foriera di speranza, come una fenice che dalla proprie ceneri rinasce, migliore.
(David Drago)