Ci sarebbe una sola ragione per arrabbiarsi con questo disco: la sua data d’uscita, il 20 luglio 2012. Perché un album electro-pop di questo tipo, che in apparenza trasuda “estate” da tutti i pori – dall’impertinente copertina rosa al nome della band, quel “pozzo della passione”, indicazione d’un luogo solitamente appartato adatto alle effusioni amorose – può esprimersi appieno soltanto d’estate, appunto, e farlo uscire a stagione così inoltrata pare quasi una crudeltà. Cosa resta di album simili una volta dismessi necessariamente i panni leggeri e sognanti della bella stagione? Cosa ne rimane di tali canzoni al finire dei sogni ad occhi aperti al ritmo di “Summer Nights” di Grease e al ricominciare del tran-tran autunnale? E quale sarà il destino di un album appartenente a questo genere, modaiolo per definizione, così legato al suo hic ed al suo nunc, durante l’estate successiva in cui nuovi generi esordiranno e faranno tendenza, dal super-mega-prog-pop alla countrystep?
Sulla carta questa sarebbe un’ottima ragione per incacchiarsi con Gossamer dei Passion Pit, se non fosse per il fatto che questo, una volta innescato col tasto play, esplode nelle orecchie grazie una mistura fatta di coriandoli, acqua salata, sabbia e cuoricini compensando così il tempo perduto. Gossamer non va per il sottile e, anzi, col suo spesso fragore elettronico fa l’amore virilmente con i nostri condotti auricolari, per quanto virile possa essere la brezza pungente delle sue piroettanti voci in falsetto estremo. Al loro secondo approccio, dopo il gradevole ma timido e impacciato, quasi cupo, “Manners”, gli statunitensi (da Cambridge, Massachussets) ma cosmopoliti (con cognomi come Angelakos, Hultquist, Apruzzese, Donmoyer) Passion Pit osano e vincono le resistenze di coloro che nell’annus fikissimus del neo-indie-electro-pop, ovvero il 2009 (anno di grandi debutti con Miike Snow, La Roux, Little Boots, Neon Indian, ecc., ecc.), non furono del tutto convinti da questo nuovo stile che esasperava le componenti più agrodolci del genere con un afflato di androginia vocale. Nel 2012 i Passion Pit prendono tutto ciò che già li faceva originali, falsetti polifonici e memorabili riff di tastiere bucacervello, e lo gonfiano a forza di steroidi. Ma non si fermano qui: andando oltre lo stereotipo principe del genere che fa della melodia un cardine quasi ridondante i Passion Pit trovano la strada dell’originalità grazie ad una varietà ritmica che non si ferma ai soliti pattern di drum-machine e casse dritte.
Innanzitutto, perché hanno anche una vera batteria che si può sentir tuonare già all’inizio nella fragorosa e fragolosa marcia di “Take A Walk” (omen nomen) poi perché in “I’ll Be Alright” a insalivarci i lobi auricolari ci pensa un ritmo dispari che fa molto “wonky”, che sarebbe quella specie di versione bambinesca e psichedelica della dubstep, poi ancora dei seducenti handclap stile r&b insexyscono “Constant Conversations”. Se questo non bastasse ad attizzare le vostre orecchie infreddolite da musica troppo seria ed attaccata a immaginari solidamente eterosessuali sappiate che i Passion Pit, sin dal 2009, non scadono nel banale nemmeno con i testi: i refrain incorettati che sembrano evocare solecuoramore sono contornati da strofe che con voce leggiadra parlano di tematiche tutt’altro che vacue domandandosi della verità e della sincerità di quei sentimenti che sembrano tanto gioiosi. Un titolo come “Love is Greed” (l’amore è avidità) non può lasciar dubbi e anche se li lasciasse verrebbero spazzati via nella domanda del ritornello “If we really love ourselves/ How do you love somebody else?”. Piano piano l’arcano si svela e si capisce che il tempo preso dai Passion Pit (ben 3 anni più metà estate) è giustificato da un disco ambiguo, bi-fronte e multi-stratificato, non solo nei suoni massicci dei suoi synth: se da un lato suona come un’immensa festa, da un altro pone delle riflessioni importanti. Come che nella vita nulla è bianco o nero ma c’è sempre un continuum difficilmente discernibile e chiudibile in compartimenti stagni. Che non esista allegria che non segua un momento meno allegro o depressione che non sia causata da una perdita della felicità. E dunque sapere ciò, tenerlo a mente, già può darci una filosofia di vita più equilibrata e, perché no, più serena.
Si sente pertanto che Gossamer è un disco fatto bene, in cui è stato riposto tanto impegno e fiducia, uno di quei dischi che celebrano il presente con la loro musica frizzante ma lo arricchiscono anche di significati utili per il futuro, guardando al passato. Un disco che rinfresca l’estate ma ne ridisegna anche l’immaginario facendo in modo che la si possa portare sempre con noi, nelle nostre orecchie, anche quando fuori piove ma ci tocca uscire comunque per adempiere ai doveri della stagione fredda, che però sentiamo un po’, almeno un po’, per una volta, meno gravosi.
(Francesco De Paoli)