Disegni di motociclette ovunque, ragazzi in motocicletta, ragazze in motocicletta, video di un ragazzo in motocicletta. Apro il sito di Twin Shadow e penso che forse il ragazzo si è un tantino fissato con le due ruote. Mi informo meglio e capisco che questa costante presenza viene come posta a esorcizzare quello che è stato un bruttissimo incidente avvenuto qualche anno fa. Confess, secondo full-leght nuovamente prodotto in solitudine e consegnato alle sapienti mani della 4AD, trae la sua ispirazione proprio da quell’evento: ”Un inverno sono caduto dalla mia moto, con un amico seduto dietro. Non avrei dovuto guidare quel giorno, ma ero giovane e senza paura. Come la moto ci scivolava da sotto, la mia testa si riempiva di parole. Al rallentatore i momenti di calma subito dopo una sorpresa e poco prima di un rammarico sono pura beatitudine. Mi ricordo che in quel momento avrei voluto dire tutto al mio amico. Come potevo dire tutto in una frazione di secondo? Come potevo seppellire le mie parole nel suo cuore? “
Ed è con questo background che all’improvviso la messa a fuoco dell’album è chiara: colmo di quella urgenza di dire tutto e dirlo subito, i suoi testi sono tutti dialoghi tra amanti in momenti di crisi, pieni di pentimento, di mancata auto realizzazione e anche di onestà; Lewis sembra aver fatto una scoperta importante e ce ne fornisce la prova attraverso un songwriting ameno e compiuto.
Per George Lewis Jr., aka Twin Shadow, la moto non è più solo un veicolo per attraversare spazi fisici ma soprattutto quelli della mente, e sembra funzionare meglio quando a guidarla è da solo. La corsa diventa qualcosa di egoistico e quasi nichilista, ma tale combinazione sembra la musa perfetta per un album gustosissimo. Confess, che arriva a due anni di distanza da Forget, deve la sua esistenza alle corse in moto fatte di primo mattino a Los Angeles, che hanno aiutato il cantautore a raggiungere uno stato simile al nirvana. Un’energia furiosa che si traduce in influenze pop smaccatamente anni ottanta.
”You Can Call Me On” è una spinosa festa di chitarra distorta e voce manipolata in una massa di confusione e rabbia, cercando di ottenere così il ritorno della sua amata, “but I don’t give a damn about the scene/It’s my only way back to you”. Il singolo di lancio è sicuramente uno dei più belli del disco: “Five Seconds” ovvero un concentrato di musica, chitarre ronzanti e synth ricurvi. Lewis è deciso, prima di farla diventare una cosa seria ci si deve conoscere meglio. Che ragazzo d’oro. “That’s no way to get it on/five seconds in your heart”. Confess funziona benissimo su queste tracce musicali più positive, quando la band sembra più sciolta e libera, e non troppo concentrata sul ricreare una perfetta fusione fra new wave ’80 e R&B. E in ‘‘Run my heart” racconta di aver lavorato per far avviare il proprio cuore. Un amore forzato o troppo analizzato non può esistere. “This isn’t love“, grida con la passione di un fuggiasco. Twin Shadow tira fuori dal cilindro un’estetica musicale sorprendente: la sua creazione raggiunge il sentimento fondamentale di un suono che facilmente si associa a quel decennio glitterato, per diventare qualcosa di nuovo. Non sta correndo così tanto lontano dall’accettare la fuga come stato permanente. Poi l’album affronta le reali conseguenze di una tale prospettiva. “Beg for the Night” è un vero e proprio comando imposto all’ascoltatore. “Come, beg for the night / feel a bit more“, vantaggi che vengono catturati dai synth in crescendo. “Before the night is through I’ll say three words / I’ll probably mean the first two and regret the third / I don’t care” canta in ”I dont’ care”. E come i grugniti tribali sullo sfondo sembrano sottolineare, Lewis sta cercando un compimento più viscerale che la vita moderna offre raramente, tranne forse quando si relaziona con le due ruote, volando verso l’asfalto di Los Angeles.
Le canzoni di questo Confess esprimono una certa intolleranza per coloro che non hanno vissuto l’illuminazione à la Beat generation come sembra suggerire “Patient” a metà fra liriche giovanili piene di dolori e demo che puzzano di Prince. Il disco termina con ”Mirror in the dark”, hidden track dall’oscuro messaggio: brano soul con un groove semplice, scandito da frammenti di chitarre atmosferiche che indicano una nuova, interessante direzione. Tanto che Lewis sembra adesso riconoscere cosa si cela dietro il suo amore per l’essere in movimento, “You can learn to be still but we will always be broken”. In silenzio è costretto a confrontarsi con se stesso e soltanto nella divorante corsa ad altissima velocità può sfuggire al fallimento.
La sua è un’estetica degli anni ottanta che ricorda e reinventa tempi andanti, amori dimenticati ma non sopiti, una colonna sonora per l’estate che suona fresca e diversamente moderna. Se con il precedente Forget i testi rasentavano l’impressionistico e si facevano suscettibili di interpretazione, oggi con Confess tutto diventa crude emozioni e sentimenti nascosti che emergono in superficie. Confess crea un leggero scollamento tra l’immediatezza dei testi e la lucentezza nera della musica, modalità che necessita di ripetuti ascolti prima di essere completamente metabolizzata. Un lavoro maturo e ponderato capace di porsi come sano revival della migliore new wave; sintetizzatori, chitarre elettriche e sonorità anni ottanta velocissime, questi gli ingredienti per un disco che parla d’amore e che permette di tuffarsi in una nostalgia romantica, tanto diretta quanto efficace.
(Beatrice Pagni)