Un esordio che va dritto per la sua strada, senza chiedersi perchè o per come, senza seguire mode e momenti, e dunque un disco della madonna, strumentale, che incorona i Mug come una delle band da entusiasmo per chiunque ami l’elettronica bella decisa, ma che sposa senza troppi snobismi una componente melodica-shoegaze in gran spolvero, che richiama talvolta alla mente un altro maestro del genere, seppur giovanissimo, ovvero il salernitano Luca Marino in arte Fucksia, e il suo indimenticabile album d’esordio “Photophobie”. Forse non ha caso, chissà: i Mug sono romani ma affondano le loro radici anche in Campania, e per essere precisi in Irpinia, che lontana da Salerno non è.
Ma i Mug sono i Mug e fanno centro: non è quell’elettronica noise da alcolizzati in acido, non è solo post-rock che non si sa più cosa voglia dire, non è esercizio stilistico da fissazioni industrial. È una meravigliosa elettromelodia che sposa noise e ambient: e per non abbandonarlo più, questo disco, basta ascoltare l’ottima “Frequencies” e la bellissima ballata “3 ottobre” che risuona talmente di shoegaze che si potrebbe essere quasi tentati da un azzardato accostamento agli Snow in Mexico. Accostamento che diventa assai meno azzardato se si ascolta l’incipit del brano “Roseros”, in cui i Mug continuano a rapirci come in un sogno dentro un videogame. Ed è un gran bel music-game, di quelli che la sanno usare, tutta la tecnologia musicale possibile, per trasportarci in altri mondi e anche dentro di noi, in una suggestione intima e interiore da cui ci lasciamo volentieri trasportare, come se il sangue caldo scorresse in fibre ottiche anziché nelle vene, e non è detto che, al tempo dei social network, non sia ormai anche così. E in fondo, che cos’è il nostro corpo se non una macchina praticamente perfetta? In questo funzionamento così preciso c’è l’anima, alla fin fine. Ed è così per i Mug e la loro musica elecrto-viscerale. Per restare a “Roseros” non c’è un minuto da perdere nel senso che i quasi cinque minuti e mezzo del pezzo scorrono via come sangue nelle vene, appunto, e aprono la porta a “Ypsilon”, altro pezzo di ampio respiro che, come quasi tutto il disco, esprime senza una parola l’inquietudine di questi anni e nello stesso tempo la voglia di riscatto, la rivendicazione della bellezza in un mondo che mostra sempre di più soltanto un orribile ghigno. Significa parecchio, per una band strumentale elettronica: molti hanno trovato nei Mug tracce di Port Royal e dei Giardini di Mirò. Ma i Mug non sono freddi come i primi né blasonati come i secondi. La genuinità del suono e la passione emotiva si intrecciano in un cocktail assai riuscito, anche nel pezzo scelto come singolo di lancio, “7-5” che non è il migliore perchè risente di qualche lezioso eccesso, ma forse, effettivamente, sintetizza bene l’anima del gruppo. Poi arriva “Memorie” e si cede definitivamente: un esordio coi fiocchi, questo “Lost transmission”.
I Mug, finalisti al Mei Supersound nel 2011, sono Fabio Mele al basso, Gabriele Trodella e Ilenia Volpe alle chitarre, Gabriele Cofanelli alla batteria e alla programmazione elettronica. Per inciso, la ragazza è quell’Ilenia Volpe incazzatissima altrove, apprezzata tanto da solista nell’album Radical chic un cazzo, esordio di rara potenza, che in versione più dolce nella formazione dei Mug.
(David Drago)