Non c’è dubbio, la freschezza può nascere anche dal riciclaggio – nulla a che vedere con processi biologici di transizione – e ne sono una “forte” dimostrazione i pugliesi Law Cut con il loro musical box d’esordio My secret windows, undici tracce che hanno l’abitudine di prendere in prestito bonariamente i suoni mordaci e non del rock’d’Albione, da un annuvolamento brit e da certificate perpendicolarità anni Ottanta/Novanta per tramutarli in energia nuova che quasi quasi non ci si potrebbe credere se non avessimo la fortuna di ascoltarli per le nostre sedute “critiche”.
La buona linea d’inquietudine e di dolcezza che lega questo lavoro, lascia presagire un’ombra serpeggiante che ha la gradevole intenzione d’essere definitiva per un futuro musicale molto vicino al riconoscimento a larghe maglie, un dischetto che arriva in sordina per offrire un catalogo alternativo di undici percorsi che non si lasciano intimorire dalla “prima prestazione registrata”, ma si muovono con fare canaglia, consumato, da piccole star di un cielo underground capovolto che già dalla prima traccia “My sweetie brother” da il meglio dell’evidenza; chitarre, pianoforti, sinth, lava e balsamo che si uniscono in un incestuoso libido di suoni e melodie, l’epopea svenevole del tardo romantic di Bryan Ferry (“Come in”), il climax Verve che strugge sotto l’ipnosi nebbiosa (“Neural”, “When I was young (reprise)”) , l’echoes field dei Dover (“My dear friend”), tutto avanza con passo ragguardevole dentro un listening che scardina anche l’ascolto più ostinato in fatto di nuove proposte.
Un disco di peso veramente, che chiama a raccolta le forze sane di un certo “giro” incrociato e che poi le gioca in una personalissima rimetabolizzazione sonica, conservandone l’impeto, il buffetto e l’imperdonabile stato di grazia che questa giovane band riesce a impennare oltre l’originale, oltre l’ispirazione presa in “prestito”; un’intelligenza “triangolare” che dalla Puglia viene a scorrere per tutto il territorio nazionale, una nuova “effervescenza di pathos” che contempla anche l’ectoplasma diabolico di un certo Bellamy dei Muse che, se in “Falling out” solfeggia come un fuoco sotto le ceneri, poi esplode in tutto e per tutto nella sua verticalità epico-drammatica (“Why”). Una band ed un bel disco al servizio del buon rock, un piccolo peccato di gola ed orecchio prontissimo per diventare oggetto di culto alternativo senza se, senza ma.
(Max Sannella)