Dall’Abruzzo con furore, ecco che dopo i Management del Dolore post-operatorio questa regione ci regala una nuova realtà giovane e molto molto rock, ovvero i Voina Hen, 5 ragazzi cresciuti col grunge in testa e, soprattutto, nelle chitarre. Il primo disco che partoriscono infatti è un’efficace commistione di sonorità “made in Seattle” e testi dal sapore letterario/adolescenziale, in cui prevale l’immaginario bukowskiano (ma anche Schiele-iano) di una sessualità spinta all’estremo (basti notare la copertina, opera di Nicola Maria Salerno, i cui tratti ricordano molto quelli di Egon Schiele, pittore già caro ai Marlene Kuntz).
Il primo brano “Questioni di etica” si apre con una batteria elettronica che ammicca a certe sonorità trip-hop, per poi lasciar spazio a chitarre “arrabbiate” alla Pearl Jam prima maniera e a un cantato altrettanto nervoso, che vomita fuori un testo rancoroso in cui si dice che fin dalla nascita ci vengono poste davanti delle strade precostituite e ci viene tolto il diritto di scegliere. “T.D.P.” è un pezzo dalle atmosfere ugualmente rabbiose ma più cupe, in cui sono ancora le chitarre distorte a dare al brano vividezza e quei cambi di ritmo di cui ha bisogno, mentre il cantato si dimostra ancora una volta graffiato e graffiante. La terza traccia, “Grid”, si distingue dalle precedenti poichè ha delle ritmiche più accelerate e meno noise, anzi sembra quasi strizzare l’occhio al Ligabue prima maniera (stile “Salviamoci la pelle”) nella prima parte, per poi rallentare e farsi più solenne all’altezza del ritornello, che tratta sempre di temi affini alla sessualità e anzi ne esalta il valore rispetto a quello dell’amore, che è troppo sopravvalutato. “Nada” è un brano meno urlato e potente, in cui i Voina Hen lasciano spazio al potere evocativo del testo, che certamente lascia intravedere le potenzialità di questa giovanissima band. Con “Der dichter” si ritorna su sonorità affini ai primi Verdena, chitarre distorte a tutto volume e batteria dritta, con il pezzo che sembra acquietarsi all’altezza del bridge per poi esplodere nuovamente al momento del ritornello.“Sensazioni di petrolio” è il pezzo più definito del disco, con un sound cupo e d’atmosfera giocato su dinamiche molto omogenee tra basso e batteria, con l’efficace inserimento delle chitarre al momento giusto a dare forza al brano, che altrimenti si appiattirebbe troppo. Il testo è un’invettiva contro questa civiltà del petrolio che distrugge tutto in nome del progresso, molto attuale e, si percepisce, sentito da questi ragazzi. La successiva “Elena” è un pezzo d’amore adolescenziale, in cui i richiami grunge si stemperano e lasciano spazio a sonorità più semplicemente rock, che nulla aggiungono a questo disco, mentre sicuramente più riuscita è la successiva traccia di questo esordio targato Voina Hen, ovvero “Charles”, smaccata dedica a Bukowski (sicuramente uno degli ispiratori, con la sua poetica, di questo disco) giocata su sonorità da hard-rock d’oltreoceano, in cui a farla da padrone sono le distorsioni. Chiude il disco la canzone che più mi ha colpito, una ballata rock di spessore, ovvero “Non avremmo dovuto”, un brano pieno di rimpianti in cui la rabbia adolescenziale contro il mondo e il passato è abilmente sintetizzata con sottofondo efficacissimo di chitarre e batteria. Da brividi la chiusura affidata ai versi de “Alla mia nazione” di Pier Paolo Pasolini, recitati da Vittorio Gassman.
Insomma i Voina Hen hanno tutte le carte in regola per ritagliarsi il loro spazio nel microcosmo del rock italiano e chissà, con una dovuta crescita, magari qualcuno tra qualche anno dirà che gli eredi dei Verdena si erano nascosti in Abruzzo.
(Alessio Gallorini)