L’amore e l’odio per la propria città. Le radici americane del rock. I Motel 20099 cercano di racchiudere queste due anime nella loro musica, già a partire dal nome. Come spiega Marco Colombo, cantante della band, “20099 è il cap di Sesto San Giovanni, mentre il motel appartiene all’immaginario americano, racchiude la voglia di scappare. Noi giochiamo con quest’ambivalenza”. Tra le pareti di un grazioso pub, ricostruito all’interno della sede di Heineken Italia, la band ridotta a duo acustico racconta la propria musica suonando. Trovano spazio una manciata di brani in cui le parole spiccano prepotenti, come in “Quattro passi”, la ballata che nel disco Mono sfoggia il featuring di Umberto Palazzo de Il Santo Niente, o in “Francesco Aldovrandi” che attraverso le immagini fa scaturire l’ignobilità umana. Un’atmosfera intima e raccolta aiuta a famigliarizzare coi brani e anche con i loro interpreti. La voce che viene a mancare, l’emozione di vedere le melodie così scarne ma ancora vibranti. Appoggiamo la pinta appena spillata sul tavolo, taccuino e penna sono lì accanto, e chiacchieriamo con Mattia Frenna e Marco per scoprire cosa si nasconde dietro ai Motel 20099. Curiosità, segreti e progetti? Sì, anche. Ma un bell’amarcord/elogio finale sugli anni Novanta non poteva mancare…
Ricordo di avervi sentiti al CarroPonte lo scorso anno, devo dire che i pezzi in acustico rendono molto di più… Avete intenzione di proseguire con questa formazione?
Stiamo pensando di abbinare elettrico e acustico a seconda delle location. In acustico ci esibiremo sempre in due, mentre per i live più “rumorosi” pensavamo di aggiungere un elemento alle tastiere.
Come vi approcciate al lavoro in studio? Com’è nato “Mono”?
Il nostro atteggiamento in studio è cambiato. Da quando registrammo il demo e il primo album siamo maturati. All’inizio eravamo ingenui, ci siamo fatti incantare dalle meraviglie tecniche. Per “Mono” abbiamo optato per la schiettezza, Mattia ha portato le idee strumentali e io ci ho messo le parole. La “straproduzione” se la può permettere chiunque, oggi la vera sfida è fare un disco bello con la propria formazione. Siamo tornati nelle radici del rock.
Parliamo un po’ della vostra scrittura. Nei brani compaiono sempre le architetture urbane: cavalcavia, strade, marciapiedi. Sesto vi ha influenzato molto in merito…
Giochiamo sulla territorialità, questo è vero. Però vogliamo andare oltre i marchi di fabbrica, cerchiamo di creare qualcosa che fosse nostro. È difficile scrivere con un linguaggio “urbano”. Non si deve cadere nell’ermetismi ma nemmeno nell’indie carino. Ad esempio “Francesco Aldovrandi” non voleva essere una canzone sociale. Abbiamo cercato di raccontare la vicenda in sè, di emanciparla. Se togli il titolo è solo una storia qualunque.
Siete una band abbastanza giovane, sia per formazione che per età media. Com’è oggi il mondo della musica?
Nonostante i due album all’attivo (il già citato “Mono” e “Romanticismo dalla periferia per giovani teppisti”, ndr) rimaniamo un gruppo piccolo e incontriamo diverse difficoltà, soprattutto per i concerti. Ci sono diverse realtà che organizzano eventi in ogni parte d’Italia, bisognerebbe agevolarle.
Ma c’è un pubblico disposto ad ascoltare della musica “nuova”?
Sì, c’è pubblico. Potenzialmente potrebbe essere di più. La mentalità del “tutto subito”, la fruizione veloce e inconsapevole non fa scattare l’affezione verso la band. Pensa che non esistono band affermate che hanno esordito dopo il 2000 (non faccio in tempo a pensare di avere la risposta pronta che vengo interrotta, nda) e non dire i Coldplay: il primo album è del 2000 quindi non vale. È un argomento che discutiamo spesso tra di noi.
Quindi il problema non è solo in chi ascolta ma anche in chi suona e produce musica?
Non c’è stato il ricambio generazionale. A metà e fine anni 90 il termine “alternative” aveva un altro senso. C’era un calderone di band diverse fra loro, un miscuglio preferibile all’omologazione. C’erano i Ritmo tribale e i Marlene kuntz e le persone ascoltavano entrambi i gruppi con uguale interesse. Però la cosa che oggi manca di più è l’originalità. Ovviamente anche allora c’erano i modelli statiunitensi alla base della musica ma era presente una maggiore apertura verso estetiche diverse. Era un territorio vergine, ora è standard.
Se continuiamo così rischiamo di finire nel vicolo dell’amarcord fine a se stesso…
Nella nostra musica c’è una componente retrospettiva ma siamo consapevoli di vivere in un’epoca diversa. I canali di distribuzione sono cambiati e sono aumentate le chance di esposizione. Guardare solo al passato è limitante: il mondo si evolve. Bisogna saper sfruttare al meglio la modernità.
(Amanda Sirtori)
Foro: Jessica Bartolini