Ottavo disco per una band che in Italia è approdata da poco, ma che fuori dalla penisola fa un po’ il culo a tutti. Non è infatti un caso se gente come Thom Yorke, Josh Homme e Liam Gallagher (per quanto possa valere il suo parere, ndr) si sono sperticati in lodi per i due americani. El camino arriva a neanche un anno di distanza da “Brothers”, il disco che li ha promossi a realtà concreta e solida nel panorama musicale internazionale, e si presenta con una delle copertine più belle degli ultimi anni: un minivan di quelli che solo gli americani possono sfoggiare mantenendo una dignità.
Undici tracce, mai dalla durata superiore ai quattro minuti, in osservanza al principio che le suite sono decisamente passate di moda, si punta all’essenzialità. E si comincia con “Lonely Boy”, il primo singolo del nuovo album (il cui video raffigura un buffo tipo che danza per tutto il tempo). Un pezzo carico e trascinante, con i suoi “oh-oh-oh-oh” che fanno immaginare una festa, un party. Peccato che le feste mi diano fastidio. Ma i coretti continuano nell’intro di “Dead and Gone”, decisamente più martellante e fuzzosa, con una melodia accattivantemente catchy. “Gold on the ceiling” è ancora più “cinematografica” delle precedenti. La forza dei Black Keys è proprio quella di creare delle immagini sonore, riuscendo ad ammaliare al punto di divenire una colonna sonora perfetta per un film immaginario; così quando il pezzo più lungo del disco, “Little Black Submarines” si srotola nella sua parte arpeggiomelodica, per poi esplodere nel finale rovente, lascia un senso di estremamente compiuto, come l’assolo dopo la prima parte di Stairway to Heaven, che fosse rimasta tutta pulita non sarebbe certo diventato uno dei pezzi più belli dell’ultimo secolo. Da qui in poi parte una triade da ricovero, “Money Maker”-“Run Right Back”-“Sister”, caratterizzate dal medesimo incedere che esula un po’ dal rock-blues che i due di Akron portano in giro per il globo, e va a parare in territori nel circondario di Palm Desert, lì dove prendeva vita, circa vent’anni fa, un genere che faceva della potenza sonora dei riff di chitarra il proprio perno. E così si muovono i Black Keys, smussando ed arrotondando i suoni di chitarra, inasprendo invece quelli di batteria, creando un’alchimia da Route 66. Da qui cominciano i commiati del gruppo all’ascoltatore. “Hell of a season” è un pezzo tipicamente indie, non dissimile da quanto creato negli anni che furono dagli Arctic Monkeys più ispirati, mentre con i due pezzi finali si approda a ritmi meno tirati, che sebbene “Mind Eraser” sarebbe difficile da scrivere per uno qualunque dei gruppi di alternative rock che girano attualmente, lascia un retrogusto amaro. Non tanto per un discorso qualitativo, non è certo un pezzo scarso, è solo l’ultimo.
I Black Keys sanno farsi apprezzare un po’ troppo da queste parti e non solo (tanto che l’annunciato concerto milanese di fine gennaio è già andato sold out). Siamo di fronte ad uno dei dischi dell’anno (prossimo), senza alcuna ombra di dubbio.
(Mario Mucedola)