Il mondo di Roberta Barabino è fragile e forte come carta zucchero, un mondo da baciare come dietro vetri rigati da una pioggia primaverile e accarezzato da nuvole oziose che si prendono per la mano e disegnano un disco tenero, pensato quasi in acustico, scritto partendo dalle note e aspettando storie animate da personaggi ignoti e conosciuti; Magot è un piccolo passaporto per spiccare una sana latitanza verticale da tutto quello che è solenne e legato a minuti/ore/ attimi da filare come in un resoconto.
L’artista genovese è una nobile reincarnazione di quella beatitudine cantautorale che lenisce – come un unguento balsamico – l’ascolto e vive della predisposizione a rilanciare, lontano da certe logiche moderne, il sentore di semplicità e pulizia tramutate in storie intime e pensieri folli, tutte cose che nell’odierno si ascoltano come privilegi o rarità; nove tracce, nove gambi di fiori, sì fiori che si aprono man mano all’alternanza del loro passaggio, tirando fuori tutta la loro essenza femminile in pregevoli macramè d’acustiche poetiche, intimità riflesse e sguardi di una “donna nell’arte della musica” che viaggiano costanti da e per una luna dall’anima eternamente espansa.
Con un pugno di amici musicisti e tante destinazioni dritte a colpire il cuore, il disco si muove leggiadro e fluido come un plaid protettivo; un disco sotto i quaranta minuti di durata, più che sufficiente per fornire un quadro ben definito della poetica della Barabino colma di aria frizzante e un po’ imbronciata sorretta da un’interpretazione fresca e urban-folk e pieno di rumori familiari come il cane che abbaia nell’arcobaleno nenia “Buongiorno a te”, introspettiva nel caracollare carrettero di “Notte blu”, capace di colorare evidenze di libertà di essere altrove “Sul tetto in cima al mondo” e liquida di glockenspiel quanto guascona nell’andatura (“Angeli metallo pesante”); tutto procede con grazia e in sottovoce, violini, viole, chitarre, trombe, sax e altro ricamano le geometrie rotonde della tracklist, niente bozzettismi, assolutamente nessuna saturazione ma la sensazione viva di essere in compagnia di una delle proposte più interessanti della nuova stagione cantautorale femminile, e “Tutta l’aria che vorrei” non fa altro che confermare questo piacere incantatorio, confidenziale che la Barabino mette in chiusura come una palpebra che si chiude – al capolinea di un’altra giornata – nell’aspettativa di una felice speranza.
Eccellenza su cui puntare forte.
(Max Sannella)