I capelli lunghi di Owens sono fuori moda e se non lo sono, beh, allora dovrebbero. Purtroppo queste cose funzionano tale quale ai segni dell’oroscopo cinese, a turno ritornano che tu lo voglia o meno. Owens ha una faccia da angelo che la si prenderebbe volentieri a schiaffi, un musetto tutta malinconia e psicofarmaci, per non parlare poi della storia della sua vita che malgrado la giovane età non ha già nulla da invidiare alla sceneggiatura di una film, col teenager che si ribella e scappa non appena realizza quanto cattivi siano gli aderenti della setta religiosa nella quale è cresciuto.
“Album” era il primo disco dei Girls, il gruppo di Christopher Owens ma anche di Chet White, ed era semplicemente bellissimo. Un titolo a cui non mancava nulla per passare inosservato, l’inferno per chi ha l’abitudine di fare ricerche sul web a proposito di ogni cosa, eppure fu un successo clamoroso. Il perché è presto detto: in quelle canzoni si poteva ascoltare tutta la nostalgia di Owens per un periodo che non ha mai vissuto, dagli anni della beat generation fino a Woodstock, un chiaroscuro indie diviso fra il pop fresco e diretto per surfisti californiani e le ballad di fine di mondo languide e sdolcinate ma nel senso buono.
Forte di questo precedente e dell’altrettanto riuscito EP pubblicato lo scorso anno, il nuovo Father, Son, Holy Ghost non poteva che essere uno dei dischi più attesi dell’anno e la notizia della sua uscita è stata accolta da un fragoroso “finalmente!”. Father, Son, Holy Ghost”è il secondo disco dei Girls, quello della verità anche se blog e riviste la loro verità in proposito ce l’hanno svelata già da mesi, ovvero capolavoro a priori, ed è per questo che la sensazione di noia provata una volta terminato il primo ascolto mi ha colto di sorpresa.
Eppure, o forse proprio per questo, l’inizio promette un gran bene grazie al power pop in quota Beach Boys di “Honey Bunny” ed alla ballata “Alex” che ha invece per riferimento i gettonatissimi Jesus and Mary Chain e Stone Roses. Eccole le cose migliori di questo disco, una via l’altra, davvero belle ma purtroppo fuorvianti perché poi le cose di colpo cambiano. I Girls iniziano infatti un viaggio di retroguardia, attraverso un itinerario poco logico che li conduce a generi musicali e atmosfere ogni volta differenti, a partire da “Die” in cui i nostri spiazzano tutti travestendosi da gruppo stoner fino ai sussurri stucchevoli delle ninnananne “Forgiveness” e “Jamie Marie”. Quel che resta è psichedelica (“My Ma” e soprattutto “Vomit”) e soul (“Love Like a River”) e un mucchio di vocalizzi di Owens che fanno pensare ad un Elvis Costello a metà fra l’estasi e il piagnucolio.
L’impressione del primo ascolto è purtroppo confermata, “Father, Son, Holy Ghost” è un disco noioso, perlomeno per i fan meno pretenziosi di “Album”, quelli che come me credevano di poterci trovare anche ritornelli e melodie mentre invece se la devono vedere con un opera manierista che richiede troppa volontà e attenzione. D’altra parte, quello che rende invece riconoscibili i Girls e continua a farceli apprezzare nonostante tutto è la qualità della scrittura, nei versi che sbrodolano miseria da ogni parte e raccontano un’America disillusa e senza punti di riferimenti, con pochi soldi in tasca ed in perenne ricerca del proprio amore. Mentre “Father, Son, Holy Ghost” viene incensato a destra e manca e premiato con voti vergognosamente alti, qua si sospende il giudizio in attesa di capire quale strada intraprenderanno i Girls d’ora in avanti, se sceglieranno di concedersi un po’ di più all’easy listening oppure no, se vorranno distillare le influenze 60s-70s facendone un punto di forza del loro suono oppure preferiranno ripercorrere un solco vecchio qualche decennio, ma di certo il duo californiano ha fin troppo talento per non essere speranzosi.
(Alberto Mazzanti)